LA SICUREZZA SUL LAVORO
1. Premessa
La tutela delle condizioni di lavoro costituisce nel nostro ordinamento un dovere per il datore di lavoro che avvalendosi del lavoro altrui deve adottare tutte le misure atte a prevenire infortuni ed eventuali situazioni di pericolo per il lavoratore derivanti da fattori naturali o artificiali presenti nell’ambiente di lavoro.
La logica economica prevalente ha sempre spinto le imprese ad adottare un comportamento tendente alla massimizzazione del profitto talvolta procedendo ad una allocazione non efficiente delle risorse complessive del sistema economico di riferimento determinando così una situazione di mercato imperfetto.
È proprio dunque per ovviare a queste imperfezioni, che il Legislatore è intervenuto, al fine di migliorare l’efficienza sociale mediante adeguati interventi correttivi.
Il D.Lgs. 81/2008 ha messo a punto pertanto una serie di misure d’urgenza all’interno di un variegato sistema normativo.
Nel complesso trattasi di un provvedimento che si compone di 306 articoli, suddivisi in tredici titoli, e con oltre cinquantuno allegati, che assorbe il D.Lgs. 626/94 e numerosi altri provvedimenti tra i quali i D.P.R. 547/1955 e 303/1956 e le norme in materia di edilizia del D.P.R. 164/1956 e del D.Lgs. 494/1996.
Oggetto del presente lavoro sarà dunque, analizzare le modifiche e l’evoluzione della legislazione in materia di sicurezza sul lavoro al fine di consentire un aggiornamento valido per gli operatori del settore.
2. Principi e definizioni
Il D.Lgs. 81/08 ha introdotto nuove figure e reinterpretato la funzione dei responsabili già presenti. Pertanto la “geografia” della sicurezza negli ambienti di lavoro è profondamente mutata e questo cambiamento ha portato ad una più chiara distribuzione dei ruoli, delle attività e dei compiti.
Unità produttiva
Prima di tutto appare opportuno dare la definizione di unità produttiva, ovvero stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale.
Lavoratore
L’art. 2 del D.Lgs. 81/08 definisce il campo di applicazione della normativa prescrivendo in modo innovativo le misure per la tutela e la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro “per tutti i settori di attività privati o pubblici”. Individua, poi, espressamente i soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza e di salute, formulando una definizione più esaustiva di lavoratore e di datore di lavoro rispetto a quella contenuta nella legislazione precedente.
GIURISPRUDENZA: La individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e sull’igiene del lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto (ossia alla sua funzione formale). A ribadire il principio è la Cassazione che ha confermato la sentenza di condanna nei confronti di un datore di lavoro, direttore del cantiere edile, responsabile di omicidio colposo verso un operaio che è stato investito dal crollo della parete dello scavo in cui si era introdotto. Per la Corte, a prescindere da un atto formale scritto, la delega deve essere provata da chi sostiene di averla data. (Cassazione penale, sez. III, 10/01/2018, n. 14352).
Il lavoratore è la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. Al lavoratore così definito è equiparato:
- il socio lavoratore di cooperativa o di società, anche di fatto, che presta la sua attività per conto delle società e dell’ente stesso;
- l’associato in partecipazione di cui all’art. 2549 ss. del codice civile;
- il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento di cui all’art. 18 della L. 24 giugno 1997, n. 196, e di cui a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro;
- l’allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le apparecchiature fornite di videoterminali limitatamente ai periodi in cui l’allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione;
- il volontario, come definito dalla L. 1° agosto 1991, n. 266;
- i volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e della protezione civile;
- il volontario che effettua il servizio civile;
- il lavoratore di cui al D.Lgs. 1° dicembre 1997, n. 468, e successive modificazioni.
NOTA: Il lavoro subordinato è il lavoro prestato da coloro che si obbligano a mettere a disposizione di un’altro soggetto (imprenditore, datore di lavoro) la loro attività lavorativa in quanto tale, a prescindere dal risultato perseguito e quindi rimanendo propriamente estranei al rischio connesso con il raggiungimento di quel risultato. Il codice civile definisce come lavoro subordinato quello reso all’interno di un’impresa (Art. 2094 c.c.), ma non si tratta di un fenomeno esclusivo dell’ impresa: datore di lavoro può essere anche un individuo non imprenditore (si pensi al lavoratore domestico alle dipendenze di un privato o alla segretaria alle dipendenze di un professionista come il medico o l’avvocato , ecc.).
GIURISPRUDENZA: Le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori (e solo i lavoratori) possano subire danni nell’esercizio della loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono là dove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla L., possono essere causa di eventi dannosi. (Corte di Cassazione Sezione 4 Penale, Sentenza del 31 marzo 2006, n. 11351).
In materia antinfortunistica, devono ritenersi destinatari delle disposizioni di prevenzione tutti coloro che presiedono all’organizzazione del lavoro aziendale. Per dirigenti si intendono quei dipendenti che hanno il compito di impartire ordini ed esercitare la necessaria vigilanza, in conformità alle scelte di politica d’impresa adottate dagli organi di vertice che formano la volontà dell’ente (essi rappresentano, dunque, l’alter ego del datore di lavoro, nell’ambito delle competenze loro attribuite e nei limiti dei poteri decisionali e di spesa loro conferiti); i preposti sono invece coloro i quali vigilano sull’attività lavorativa degli altri dipendenti, per garantire che essa si svolga nel rispetto delle regole prevenzionali, e che sono all’uopo forniti di un limitato potere di impartire ordini ed istruzioni, di natura peraltro meramente esecutiva. (Corte di Cassazione Sezione 4 Penale, Sentenza del 7 dicembre 2005, n. 44650).
Il direttore dello stabilimento è destinatario iure proprio, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela dell’incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti. Il compito del direttore dello stabilimento, in proposito, non si esaurisce nella predisposizione di adeguati mezzi di prevenzione e protocolli operativi, essendo lo stesso tenuto ad accertare che le disposizioni impartite vengano nei fatti eseguite e a intervenire per prevenire il verificarsi di incidenti, attivandosi per far cessare eventuali manomissioni o modalità d’uso da parte dei dipendenti o il mancato impiego degli strumenti prevenzionali messi a disposizione. (Nella specie, l’addebito era basato, principalmente, sul non essere intervenuto il direttore dello stabilimento per contrastare una prassi operativa irregolare, risultata foriera di avere determinato l’incidente; la Corte, nel rigettare il ricorso, ha ritenuto che l’avere l’imputato assunto l’incarico da circa un anno doveva ritenere tale tempo utile per l’assunzione di un’adeguata consapevolezza sulla concreta situazione aziendale, in ragione dello stretto rapporto esistente – o che comunque avrebbe dovuto esistere – tra il direttore dello stabilimento e l’ambiente di lavoro; diversamente, la Corte ha invece annullato con rinvio la condanna pronunciata, per le stesse ragioni, a carico del direttore generale, evidenziando che, rispetto a tale posizione, vertendosi soprattutto in un’ipotesi di azienda di grandi dimensioni, doveva meglio approfondirsi il tema della consapevolezza della situazione di irregolarità, giacché anche per il direttore si poneva un problema di tempistica recente di assunzione della carica, e ciò considerata la diversa situazione di contiguità di questi con l’ambiente di lavoro, inferiore a quella del direttore di stabilimento). (Cassazione penale, sez. IV, 24/02/2015, n. 13858).
CASO PRATICO
Ci si interroga in merito all’obbligatorietà della redazione del documento di valutazione dei rischi, ai sensi dell’art. 17, 1 co. l, lett. a), del D-Lgs. n. 81/2008 da parte delle “associazioni periferiche affiliate ad una Associazione, non avente personale dipendente ma che si avvalgono dell’ausilio di volontari nei confronti dei quali può essere disposto un rimborso spese di importo annuo comunque di gran lunga inferiore a € 7.500,00”.
Al riguardo va premesso che l’art. 2, 1 co., lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008 definisce lavoratore la “persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari”.
Inoltre, il successivo art. 3, co. 12-bis, riporta che “nei confronti dei volontari di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266, dei volontari che effettuano servizio civile, dei soggetti che prestano la propria attività, spontaneamente e a titolo gratuito o con mero rimborso di spese, in favore delle associazioni di promozione sociale di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 383, e delle associazioni sportive dilettantistiche di cui alla legge 16 dicembre 1992, n. 398, e all’art. 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni, nonché nei confronti di tutti i soggetti di cui all’art. 67, co. 1, lett. m), del testo unico di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 91 7, e successive modificazioni, si applicano le disposizioni di cui all’art. 21 del presente decreto”.
Si ritiene che il regime applicabile, per i soggetti che prestano la propria attività volontariamente e a titolo gratuito (o con mero rimborso spese) per le associazioni sportive dilettantistiche, di cui alla Legge n. 398/1991 e all’art. 90 della Legge n. 289/2002, sia quello previsto per i lavoratori autonomi di cui all’art. 2222 del codice civile, per i quali l’art. 3, co. 11, del D.Lgs. n. 81/2008 dispone l’applicazione dell’art. 21.
Inoltre, è opportuno evidenziare che, l’art. 3 co. 12-bis del decreto in parola, prevede anche che qualora i soggetti di cui sopra svolgano la loro “prestazione nell’ambito di un’organizzazione di un datore di lavoro, questi è tenuto a fornire al soggetto dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti nei quali è chiamato ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla sua attività. Egli è altresi tenuto ad adottare le misure utili a eliminare o, ove ciò non sia possibile, a ridurre al minimo i rischi da interferenze tra la prestazione del soggetto e altre attività che si svolgano nell’ambito della medesima organizzazione”.
Restano fermi i principi generali di diritto che impongono al responsabile dell’impianto o dell’associazione sportiva dilettantistica che di esso abbia la disponibilità – da individuare secondo la normativa di settore che regola la materia – di predisporre adeguate misure di tutela nei confronti di chi venga chiamato ad operare nell’ambito delle attività di riferimento dell’associazione sportiva dilettantistica e che, pertanto, ne sanciscono la responsabilità secondo i principi comuni civili e penali nel caso di danni causati a terzi da cose in disponibilità.
Il datore di lavoro
L’art. 2, lett. b), del D.Lgs. 81/08, definisce datore di lavoro “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, del D.Lgs., 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo.
Sul piano generale, il parametro di riferimento per l’individuazione del datore di lavoro è dunque l’art. 2, lett. b), D.Lgs. 81/2008 che impone tra gli indici di riconoscimento della figura datoriale da un lato il carattere formale, che si riconduce appunto alla titolarità del rapporto di lavoro con il lavoratore, e dall’altra la natura sostanziale che si riconnette al concetto di responsabilità in relazione ai tradizionali indici della autonomia potere decisionale e di spesa.
La qualifica di datore di lavoro risulta in tal modo fondata sull’autonomia decisionale e finanziaria nell’impiego di tutti i fattori produttivi, autonomia che espressamente si richiede sia concreta ed effettiva (con esclusione di poteri solo consultivi o propositivi), accompagnata dalle condizioni indispensabili perché si possa dispiegare liberamente, senza interventi di terzi. In ciò si dovrà tener conto del dato organizzativo e della distribuzione dei compiti purché caratterizzati dall’autonomia.
GIURISPRUDENZA: In tema di prevenzione degli infortuni, l’appaltatore che procede a subappaltare l’esecuzione delle opere non perde automaticamente la qualifica di datore di lavoro, neppure se il subappalto riguardi formalmente la totalità dei lavori, ma continua ad essere responsabile del rispetto della normativa antinfortunistica, qualora eserciti una continua ingerenza nella prosecuzione dei lavori. (Cassazione penale, sez. III, 24/10/2013, n. 50996).
In materia di sicurezza sul lavoro, la qualifica di “datore di lavoro” – collegata, secondo quanto disposto dall’art. 2 co. 1 lett. b) secondo periodo D.Lgs. n. 81 del 2008, ai poteri di gestione conferiti con deliberazione dell’amministrazione di appartenenza – può essere attribuita anche ad un dirigente o funzionario diverso da quello che ha provveduto all’affidamento dell’incarico e che si occupa del pagamento dei relativi corrispettivi. (Fattispecie relativa a responsabilità per omessa verifica dei requisiti tecnico-professionali delle ditte affidatarie di lavori di bonifica e smaltimento di materiali contenenti amianto). (Cassazione penale, sez. III, 17/10/2013, n. 2862).
Ex art. 2 co. 1 lett. b) D.Lgs. n. 626/94 (ora trasfuso nella corrispondente norma dell’art. 2 co. 1 lett. b) D.Lgs. n. 81/08), ai fini ed agli effetti delle disposizioni di sicurezza sul lavoro, nelle p.a. di cui all’art. 1, co. 2, D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. Al dirigente o funzionario vengono trasferite tutte le funzioni datoriali, ivi comprese quelle non delegabili, il che rende non assimilabile detto atto alla delega di funzioni disciplinata dall’art. 16 del medesimo D.Lgs. (Tribunale Pescara, sez. lav., 22/01/2016, n. 57).
Il Sindaco, ove abbia provveduto all’individuazione dei soggetti cui attribuire la qualità di datore di lavoro, risponde per l’infortunio occorso al lavoratore solo nel caso in cui risulti che egli, essendo a conoscenza della situazione antigiuridica inerente alla sicurezza dei locali e degli edifici in uso all’ente territoriale, abbia omesso di intervenire, con i propri autonomi poteri, atteso che con l’atto di individuazione, emanato ai sensi dell’art. 2, co. primo, lett. b) D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, vengono trasferite al dirigente pubblico tutte le funzioni datoriali, ivi comprese quelle non delegabili, il che rende non assimilabile detto atto alla delega di funzioni disciplinata dall’art. 16 del medesimo D.Lgs. (Cassazione penale, sez. IV, 12/05/2015, n. 22415).
Il responsabile del servizio manutenzione ed il responsabile del reparto sono privi di responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali, avendo poteri di livello inferiore, solitamente rapportati all’effettivo potere di spesa, e quindi, pur avendo qualifica dirigenziale, non sono equiparabili al datore di lavoro. Pertanto non sono colpevoli dei reati in materia di contravvenzione e sicurezza del lavoro ex D.Lgs. n. 81/2008. (Cassazione penale, sez. III, 07/11/2013, n. 6370).
Nelle p.a., la qualifica di datore di lavoro – ai fini della normativa sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro – deve intendersi attribuita al dirigente al quale spettano poteri di gestione, compresa la titolarità di autonomi poteri decisionali anche in materia di spesa. Ne deriva, peraltro, che quando le somme necessarie per gli interventi prevenzionali, sebbene richieste non siano state erogate, è imposto a chi abbia poteri gestionali sul luogo di lavoro di attivarsi per trovare soluzioni cautelari analogamente satisfattive e “compensative” rispetto agli interventi non potuti attuare per mancanza della disponibilità economica. (Nella specie, è stato pertanto rigettato il ricorso avverso una sentenza di condann per un infortunio di lavoro pronunciata a carico del comandante provinciale dei Vigili del fuoco che, nello specifico, rivestiva il ruolo di datore di lavoro, evidenziandosi che l’addebilo era stato correttamente basato sulla mancata attivazione per trovare comunque soluzioni cautelative adeguate, non bastando a tal fine che l’imputato si fosse inutilmente attivato per avere dall’amministrazione l’erogazione delle somme necessarie per realizzare gli interventi di sicurezza: nello specifico, la predisposizione di un adeguato sistema di segnaletica all’interno della caserma). (Cassazione penale, sez. IV, 24/01/2013, n. 11489).
In tema di tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro negli enti locali, l’organo di direzione politica che non abbia espressamente attribuito la qualifica di datore di lavoro al dirigente del settore competente, conserva lui stesso la qualifica. (Cassazione penale, sez. IV, 12/04/2013, n. 30214).
Gli obblighi di prevenzione infortuni e sicurezza in luoghi di lavoro, che per legge fanno capo al datore di lavoro, gravano, nel settore degli enti pubblici, sul titolare effettivo del potere di gestione che, all’interno delle aziende sanitarie locali si individua, in assenza di delega, nel direttore generale; peraltro, tali obblighi di prevenzione possono gravare anche sul funzionario non avente qualifica dirigenziale che sia preposto a un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice dell’amministrazione tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e che sia altresì dotato di poteri decisionali e di spesa. (Nella specie, secondo la Corte, alla luce del concreto potere gestorio apprezzato in sede di merito, gli obblighi prevenzionali erano stati correttamente ravvisati a carico dei direttori sanitari succedutisi nella gestione di un dipartimento di salute mentale e della struttura residenziale che ospitava i pazienti dimessi dagli ospedali psichiatrici, ove, per carenze strutturali, si era verificato un incendio che aveva provocato la morte di alcuni degenti). (Cassazione penale, sez. IV, 17/04/2013, n. 23944).
In tema di gestione della sicurezza degli edifici scolastici, ai fini della individuazione dei soggetti responsabili della stessa è necessario distinguere tra misure di tipo strutturale ed impiantistico, di competenza dell’ente locale proprietario dell’immobile e titolare del potere di spesa funzionale all’adozione delle misure necessarie e gli adempimenti di tipo amministrativo e gestionale spettanti, invece, alla amministrazione scolastica. (Fattispecie relativa alla responsabilità – in ordine al reato di cui agli artt. 46, co. secondo e 55, co. 5 lett. c), del D.Lgs. n. 81 del 2008, del dirigente dell’area tecnica e manutentiva del Comune per la mancata sottoposizione a verifica periodica degli estintori di un edificio scolastico di proprietà del suddetto ente territoriale). (Cassazione penale, sez. III, 14/04/2016, n. 30143).
NOTA: Recente sentenza con cui la Suprema Corte ribadisce il già espresso orientamento giurisprudenziale in merito alla responsabilità del soggetto che assume la qualifica di datore di lavoro.
Nella pronuncia in commento la Corte richiama il principio già espresso in base al quale, dal momento che, in materia antinfortunistica, l’inottemperanza da parte del contravventore alle prescrizioni di regolarizzazione costituisce una condizione di punibilità, ne consegue che è onere del giudice accertare se il contravventore abbia omesso di ottemperare alla prescrizione per negligenza, imprudenza o imperizia o inosservanza di norme regolamentari ovvero se sia stato impossibilitato a ottemperare per caso fortuito o per forza maggiore (Cass. pen., Sez. III, 11 gennaio 2008, Pirovano, rv. 239279).
La Suprema Corte ha anche avuto modo di puntualizzare che, sia pure con riferimento ad imprese di grandi dimensioni, il soggetto responsabile per la mancata adozione di misure di sicurezza non può essere individuato, automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di vertice.
Occorre, infatti, un accertamento puntuale, ed in concreto, circa la effettiva situazione della gerarchia delle responsabilità all’interno dell’apparato strutturale, onde non incorrere nel rischio di ascrivere all’organo di vertice quasi una sorta di responsabilità oggettiva rispetto a situazioni ragionevolmente non controllabili, perché devolute alla cura ed alla conseguente responsabilità di altri che abbiano anche piena ed esclusiva autonomia di spesa. (Cass. pen., Sez. IV, 28 aprile 2011, Miao, n. 23292, rv. 250709).
CASO PRATICO
Ci si interroga in merito a quattro quesiti:
- in quali casi l’allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale, sono equiparati ai lavoratori e devono quindi sottostare a tutto quanto è previsto dal D.Lgs. n. 81/2008, considerando che nello svolgimento dell’attività ordinaria, l’allievo o il corsista utilizza gessi, lavagne digitali, colle, colori, ecc. che sono agenti chimici e attrezzature videoteminali;
- quali sono i criteri di identificazione del datore di lavoro, dirigente e preposto nel caso delle scuole cattoliche;
- quali sono i criteri di identificazione e di reperimento degli enti bilaterali e organismi paritetici di cui all’accordo Stato Regioni del 21/12/2011;
- limiti dell’obbligo di informazione e formazione ex art. 3 del D.Lgs. n. 81/2008, nel caso di docente esterno, chiamato ad una supplenza in via d’urgenza.
In merito al primo quesito preliminarmente si rileva che l’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2008 prevede che al lavoratore è equiparato “l’allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biolonici, ivi comprese le apparecchiature fornite di videoterminali limitatamente ai periodi in cui l’allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione […]”.
In particolare occorre evidenziare che, in attesa dell’emanazione del decreto di cui all’art. 3, co. 2, del D.Lgs. n. 81/2008, l‘equiparazione dell’alunno al lavoratore deve intendersi nei termini fissati dal D.M. 29 settembre 1998, n. 382, “Regolamento recante norme per l’individuazione delle particolari esigenze degli istituti di istruzione ed educazione di ogni ordine e grado” che all’art. 1, co. 2, espressamente prevede “sono equiparati ai lavoratori, ai sensi dell’art. 2, co. 1, lett. a), del D.Lgs. n. 626, gli allievi delle istituzioni scolastiche ed educative nelle quali i programmi e le attività di insegnamento prevedano espressamente la frequenza e l’uso di laboratori appositamente attrezzati, con possibile esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici, l’uso di macchine, apparecchi e strumenti di lavoro in genere ivi comprese le apparecchiature fornite di videoterminali. L’equiparazione opera nei periodi in cui gli allievi siano effettivamente applicati alle strumentazioni o ai laboratori in questione. I predetti allievi non sono comunque computati, ai sensi del D.Lgs. n. 626, ai fini della determinazione del numero dei lavoratori dal quale il medesimo decreto fa discendere particolari obblighi. In tali ipotesi le attività svolte nei laboratori o comunque nelle strutture di cui sopra hanno istituzionalmente carattere dimostrativo-didattico”.
Premesso quanto sopra, fermo restando che tutti gli strumenti devono essere usati secondo i principi di prudenza e diligenza espressi dai codici civile e penale, il D.Lgs. n. 81/2008 equiparando ai lavoratori gli allievi degli istituti di istruzione e universitari e i partecipanti ai corsi di formazione professionale unicamente nei casi e per il tempo in cui “si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le attrezzature munite di videoterminali”, da un lato esclude l’applicazione delle norme specifiche di salute e sicurezza sul lavoro in tutti i periodi ed in tutti i casi in cui gli allievi siano applicati in attività scolastiche ed educative nelle quali i programmi di insegnamento e formazione non prevedano l’uso di attrezzature di lavoro e l’esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici con la frequentazione di laboratori appositamente attrezzati, dall’altro esclude qualsiasi deroga nell’applicazione delle norme prevenzionali, comprese – a titolo di esemplificazione – quelle relative alla sorveglianza sanitaria e alla formazione, quando gli allievi acquisiscano la parificazione allo stato di “lavoratore”.
Per quanto concerne il secondo quesito, il datore di lavoro è quello identificato dall’art. 8 del D.M. 29 settembre 1998, n. 382 che, nel prevedere i limiti di applicazione anche alle “Istituzioni scolastiche ed educative non statali”, specifica “Ai predetti fini per datore di lavoro si intende il soggetto gestore di cui al titolo VIII, articoli 345 e 353 del testo unico approvato con D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297. Ove il soggetto sia una persona giuridica, per datore di lavoro si intende il rappresentante legale dtill’ente ai sensi del co. 2 del predetto art. 353”.
Tale individuazione deve comunque rispettare quanto previsto dall’art. 2, co. 1 lett. b), del D.Lgs. n. 81/2008 che definisce il datore di lavoro come “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”.
In riferimento ai terzo quesito si evidenzia che l’Accordo Stato-Regioni del 25/07/2012 ha ampiamente trattato la questione relativa agli Organismi Paritetici dando indicazioni relative a quanto previsto dall’art. 37, co. 12, del D.Lgs. n. 81/2008 in merito alla richiesta di collaborazione da parte del datore di lavoro agli organismi paritetici “ove presenti nel settore e nel territorio in cui si svolge l’attività del datore di lavoro”. In particolare l’Accordo sopracitato, relativamente alla collaborazione di cui all’art. 37 espressamente prevede “[…] Resta inteso che tale richiesta di collaborazione opera unicamente in relazione agli organismi paritetici che abbiano i requisiti di legge e che, quindi, siano costituiti nell’ambito di organizzazioni sindacali comparadvamente più rappresentative sul piano nazionale (in questo senso la definizione di “organismo paritetico” dettata all’art. 2, co. 1 , lett. ee), del d.lgs. n. 81/2008) e che svolgano la propria attività di “supporto” alle aziende operando sia nel territorio che nel settore di attività del datore di lavoro (in questo senso l’art. 37, cornma 12, citato). Rispetto a tale previsione, si ritiene che il “territorio” di riferimento possa essere individuato nella Provincia, contesto nel quale usualmente operano gli organismi paritstici. Nei soli casi in cui il sistema di pariteticità non sia articolato a livello provinciale ma sia comunque presente a livello regionale, la collaborazione opererà a tale livello. Qualora, invece, gli organismi paritetici non siano presenti a né a livello provinciale né a livello regionale, il datore di lavoro […] potrà comunque rivolgersi ad un livello superiore a quello regionale”. Per quanto riguarda la parte del quesito relativa alla necessità di dimostrazione, da parte del datore di lavoro, organizzatore del corso, dell’inesistenza, nel territorio, di organismi paritetici per il settore di riferimento, che non sia suo onere dimostrare la non presenza dell’Organismo paritetico nel settore e nel territorio in cui si svolge la propria attività.
In ordine all’ultimo quesito, il punto 8 dell’Accordo Stato-Regioni del 21/12/2011 prevede, con riferimento alle fattispecie di cui all’art. 37, co. 4, del D.Lgs. n. 81/2008, il riconoscimento dei crediti formativi alla costituzione di un nuovo rapporto di lavoro. In particolare “qualora il lavoratore vada a costituire un nuovo rapporto di luvoro o di somministrazione con un’azienda dello stesso settore produttivo cui apparteneva quella d’origine o precedente, costituisce credito formativo sia la frequenza alla Formazione Generale, che alla Formazione Specifica di settore”.
Pertanto il datore di lavoro può facilmente dimostrare l’adempimento di quanto previsto dall’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008 chiedendo al lavoratore l’esibizione dell’attestato di frequenza di cui all’Accordo Stato-Regioni del 21/12/2011. Viceversa, qualora il lavoratore sia privo della formazione prevista dall’Accordo Stato-Regioni del 21/12/2011, il datore di lavoro deve provvedere ad avviare il lavoratore ai corsi di formazione anteriormente “o, se ciò non risulta possibile, contestualmente all’assunzione. In tale ultima ipotesi, ove non risulti possibile completare il corso di formazione prima della adibizione del dirigente, del preposto o del lavoratore alle proprie attività, il relativo percorso formativo deve essere completato entro e non oltre 60 giorni dalla assunzione”.
GIURISPRUDENZA: In materia di responsabilità per violazioni delle norme antinfortunistiche, il datore di lavoro obbligato alle prescrizioni dettate per la sicurezza dei luoghi di lavoro va identificato in colui che riveste tale ruolo nell’organizzazione imprenditoriale alla quale accede il luogo di lavoro in cui si è verificato l’infortunio. (In applicazione del principio la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza con la quale era stata affermata la responsabilità dell’amministratore delegato della società proprietaria della Galleria commerciale all’ingresso della quale una dipendente di uno dei negozi siti all’interno della stessa era scivolata, procurandosi lesioni, giacché mancava la dimostrazione che il luogo dove si era verificato l’incidente fosse qualificabile come “luogo di lavoro” per la società proprietaria dell’immobile). (Cassazione penale, sez. IV, 09/09/2015, n. 40721).
Dirigenti e preposti
L’art. 2, lett. d) ed e), D.Lgs. 81/2008 definiscono altresì il dirigente: “persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa” ed il preposto: “persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa”.
Ebbene, i dirigenti od i preposti di un’azienda, quali collaboratori dell’imprenditore risultano, al pari di quest’ultimo, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, destinatari iure proprio dell’osservanza dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega ad hoc.
GIURISPRUDENZA: La prova dell’assunzione del ruolo di preposto non richiede un elemento probatorio documentale o formale, potendo il giudice del merito fondare il convincimento anche su testimonianze od altri accertamenti fattuali. (Cassazione penale, sez. IV, 04/06/2015, n. 34299).
Azienda
L’azienda è il complesso della struttura organizzata dal datore di lavoro pubblico o Privato.
Salute
La salute è lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità.
Sistema di promozione della salute e sicurezza
Il sistema di promozione della salute e sicurezza è il complesso dei soggetti istituzionali che concorrono, con la partecipazione delle parti sociali, alla realizzazione dei programmi di intervento finalizzati a migliorare le condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori.
Prevenzione
La prevenzione è il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno.
Rischio
Il rischio è la probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione.
Nella valutazione dei rischi è stata operata una iniziale disgiunzione tra “rischi generici” e “rischi specifici”. I “rischi generici” sono presenti in tutti i lavori; non risentono della specifica attività svolta ma delle caratteristiche dell’“ambiente di lavoro”. I “rischi specifici” differiscono per tipo di lavoro e dipendono dalle caratteristiche dell’attività e dalla mansione svolta, nonché dalle attrezzature e dalle macchine impiegate.
GIURISPRUDENZA: Il rischio “specifico” è quello tipico dell’attività specializzata dell’impresa appaltatrice, quello che di regola giustifica la dazione in appalto di determinati lavori. Tale non è dunque il rischio che è preesistente nell’ambiente di lavoro perché originato dal tipo di difesa inadeguato approntato dal committente in relazione all’attività di cantiere da lui organizzata. (Tribunale Milano, 25 gennaio 2000).
Valutazione del rischio
La valutazione del rischio è il punto d’origine in cui si incardinano i problemi relativi alle decisioni da prendere in materia di sicurezza sul lavoro e di rischi ambientali per la collettività. Ma è anche la probabilità che si verifiche un evento dannoso conseguente all’esposizione ad un pericolo, ovvero l’insieme delle complesse operazioni che devono essere effettuate per stimare qualsiasi esposizione ad un rischio, in relazione con le modalità di svolgimento delle procedure lavorative.
La “valutazione del rischio” costituisce dunque un obbligo inderogabile che va effettuato comunque anche dove la realtà lavorativa sia tale da escludere la sussistenza di rischi specifici.
A tal proposito il datore di lavoro è tenuto ad effettuare la valutazione anche e soltanto al fine di escludere l’esistenza di rischi con conseguente necessità di procedere alla loro eliminazione o riduzione.
L’obiettivo della valutazione secondo il D.Lgs. 81/08 è quello invece di consentire al datore di lavoro di prendere tutti i provvedimenti necessari per la salvaguardia e la sicurezza dei lavoratori, in ciascun posto di lavoro, per tutte le attività e mansioni da essi svolte.
La valutazione dei rischi si articola fondamentalmente in 4 fasi:
- 1) individuazione delle situazioni di pericolo;
- 2) identificazione delle persone esposte alle situazioni di pericolo;
- 3) valutazione dei rischi;
- 4) adozione delle misure di prevenzione che siano rivolte a ridurre i rischi non eliminabili.
Problema invece diverso e a tutt’oggi non ancora risolto è quello del contenuto della valutazione del rischio nel caso la stessa potrebbe esporre il datore di lavoro ad una sorta di autodenuncia di situazioni lavorative non rispondenti ai dettami della normativa sulla protezione degli infortuni o sull’igiene del lavoro.
La valutazione del rischio rappresenta, dunque, sicuramente l’aspetto maggiormente innovativo rispetto a tutto l’impianto normativo del D.Lgs. 81/08 e si sostanzia nel compimento delle operazioni descritte nel co. 1, lett. a), dell’art. 17, D.Lgs. 81/08 e si traduce nella redazione di un documento scritto da tenere presso l’azienda ovvero nell’unità produttiva nelle forme e nei contenuti di cui al co. 2, del citato art. 17.
In definitiva si tratta di una individuazione generale di tutte le possibili fonti di rischio per la sicurezza e salute dei lavoratori derivanti dall’espletamento di una data attività lavorativa, anche se non richiedente l’uso di prodotti di per se pericolosi valutata nel suo complesso.
Il rischio va, pertanto, valutato sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo, anche se in quest’ultimo caso non sempre è facile un agevole valutazione quando non esiste il riferimento a un qualche tipo di misurazione. Una mancata quantificazione impedisce una corretta valutazione per cui ci si trova davanti all’impossibilità di prevedere il danno che potrebbe verificarsi.
I risultati della valutazione dei rischi appaiono necessari per pianificare una corretta gestione anche se non sempre è possibile valutare correttamente e in termini quantitativi il rischio e la natura del danno che una situazione di pericolo può determinare.
La valutazione del rischio costituisce un obbligo inderogabile da effettuarsi sempre e comunque, anche laddove la realtà lavorativa sia tale da escludere la sussistenza di rischi specifici.
GIURISPRUDENZA: L’imposizione al datore di lavoro di redigere il documento di valutazione dei rischi, è un obbligo la cui violazione costituisce un’ipotesi di reato omissivo proprio (o puro) di natura permanente. (Cassazione penale , sez. III, 22 gennaio 2004, n. 14777).
In tema di prevenzione degli infortuni, le omissioni o le carenze del documento di valutazione dei rischi adottato dal datore di lavoro non esonerano da responsabilità per le lesioni occorse ai lavoratori gli ulteriori garanti della sicurezza sul lavoro, atteso che la constatazione dell’esistenza di un rischio impone loro, nell’ambito delle rispettive competenze, di adottare le misure appropriate per rimuoverlo. (In applicazione del principio la S.C. ha confermato la sentenza di condanna per il reato di lesioni colpose occorse ad un operaio, pronunciata nei confronti del direttore di stabilimento, delegato dal datore di lavoro in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, non avendo egli provveduto né a spiegare i rischi collegati ad una determinata attività né adottato le procedure di sicurezza adeguate, pur essendo perfettamente a conoscenza del rischio lavorativo connesso a detta attività). (Cassazione penale, sez. IV, 19 marzo 2015, n. 24452).
In tema di individuazione delle responsabilità penali all’interno delle organizzazioni complesse, non può attribuirsi, in via automatica, all’organo di vertice la responsabilità per l’inosservanza della normativa di sicurezza, dovendosi sempre considerare l’effettivo contesto organizzativo e le condizioni in cui detto organo ha dovuto operare. Il direttore dello stabilimento è destinatario iure proprio, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela dell’incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti. Il compito del direttore dello stabilimento, in proposito, non si esaurisce nella predisposizione di adeguati mezzi di prevenzione e protocolli operativi, essendo lo stesso tenuto ad accertare che le disposizioni impartite vengano nei fatti eseguite e a intervenire per prevenire il verificarsi di incidenti, attivandosi per far cessare eventuali manomissioni o modalità d’uso da parte dei dipendenti o il mancato impiego degli strumenti prevenzionali messi a disposizione. (Nella specie, l’addebito era basato, principalmente, sul non essere intervenuto il direttore dello stabilimento per contrastare una prassi operativa irregolare, risultata foriera di avere determinato l’incidente; la Corte, nel rigettare il ricorso, ha ritenuto che l’avere l’imputato assunto l’incarico da circa un anno doveva ritenere tale tempo utile per l’assunzione di un’adeguata consapevolezza sulla concreta situazione aziendale, in ragione dello stretto rapporto esistente – o che comunque avrebbe dovuto esistere – tra il direttore dello stabilimento e l’ambiente di lavoro; diversamente, la Corte ha invece annullato con rinvio la condanna pronunciata, per le stesse ragioni, a carico del direttore generale, evidenziando che, rispetto a tale posizione, vertendosi soprattutto in un’ipotesi di azienda di grandi dimensioni, doveva meglio approfondirsi il tema della consapevolezza della situazione di irregolarità, giacché anche per il direttore si poneva un problema di tempistica recente di assunzione della carica, e ciò considerata la diversa situazione di contiguità di questi con l’ambiente di lavoro, inferiore a quella del direttore di stabilimento). (Cassazione penale, sez. IV, 24 febbraio 2015, n. 13858).
In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, il che non vale, tuttavia, a rendere efficace una delega priva dei requisiti di legge. (Fattispecie relativa al rilascio di una delega priva di elementi che consentissero di verificarne con certezza l’epoca del conferimento e caducata in seguito al mutamento dell’organo di governo dell’ente). (Cassazione penale, sez. IV, 04/04/2017, n. 22606).
Pericolo
Correlata alla nozione di rischio è la definizione di pericolo.
Per pericolo si intende “una proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni”.
Il D.Lgs. 81/08 ai fini di una corretta informazione indica i criteri seguiti per valutare i rischi connessi alle varie attività, e il peso dato alle diverse fonti di pericolo.
L’art. 18 fa espresso obbligo ai lavoratori di utilizzare correttamente i preparativi pericolosi, nonché di segnalare immediatamente le eventuali condizioni di pericolo di cui vengono a conoscenza. La norma prevede che in caso di pericolo grave ed immediato il lavoratore può allontanarsi subito dal luogo di lavoro mentre il datore di lavoro prende i necessari provvedimenti affinché qualsiasi lavoratore in caso di pericolo grave ed immediato per la propria sicurezza ovvero per quella di altre persone e nell’impossibilità di contattare il competente superiore gerarchico, possa prendere le misure adeguate per evitare le conseguenze di tale pericolo.
L’assenza di pericoli è dunque condizione essenziale per un lavoro sereno, oltre che sicuro. Tuttavia, per quanto attiene alle attività svolte nei laboratori di sperimentazione e ricerca non sono attività “di routine”, per cui esiste sicuramente un rischio residuo che può emergere per variazioni dell’attività lavorativa, per acquisizione di nuove apparecchiature o per mutamenti dell’ambiente di lavoro; inoltre, la ricerca universitaria può costituire di per sé attività a rischio, in quanto spesso vengono attivati processi i cui risultati ed effetti non sono completamente conosciuti.
Perciò il “rischio zero” non esiste, tanto è vero che si parla non già di “eliminazione” bensì di “riduzione al minimo” del rischio presente.
GIURISPRUDENZA: Nessuna efficacia causale per escludere la responsabilità del datore di lavoro può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia comunque da ricondurre alla mancanza o all’insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento. (Fattispecie in cui il datore di lavoro è stato ritenuto responsabile per le lesioni riportate dal lavoratore il quale, per prelevare una scatola da uno scaffale, utilizzava quattro pedane in legno sovrapposte, anziché una scala, le quali cedevano cagionandone la caduta). (Tribunale Benevento, 16/07/2015, n. 1130).
L’art. 18 co. 3 del D.Lgs. n. 81 del 2008 prevede che gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi dello stesso D.Lgs., la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione (respinta la tesi difensiva dell’imputato secondo cui la responsabilità in ordine alla scurezza negli istituti scolastici era da attribuire ai capi delle istituzioni scolastiche ed educative statali; nella specie, l’imputato era stato accusato del reato di cui agli artt. 46, co. 2, e 55, co. 5, lett. c) del d. lg. n. 81 del 2008 per non avere, quale dirigente responsabile dell’area tecnica e manutentiva di un comune, adottato misure idonee per prevenire gli incendi all’interno di una scuola elementare, atteso che gli estintori non erano stati sottoposti alla verifica periodica e che l’impianto idrico non era funzionante). (Cassazione penale, sez. III, 14/04/2016, n. 30143).
Va, inoltre, sottolineato che, in tema di sicurezza sul lavoro, la condotta incauta del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento quando sia comunque riconducibile all’area di rischio propria delle lavorazioni svolte dal dipendente. La conseguenza è che il datore di lavoro può essere esonerato da responsabilità solo nelle ipotesi in cui il comportamento del lavoratore e le sue conseguenze presentino i caratteri della eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute.
La mera condotta colposa, per quanto macroscopica del dipendente, non assurge dunque di per sé ad elemento tale da escludere la penale responsabilità del datore di lavoro. Ciò è tanto più vero allorché, come nel caso in esame, la condotta colposa del dipendente possa ragionevolmente essere considerata conseguenza diretta degli inadempimenti del datore di lavoro agli obblighi informativi e formativi verso quel dipendente.
GIURISPRUDENZA: In linea di principio, la condotta colposa del lavoratore infortunato può escludere la responsabilità del datore di lavoro solo quando il comportamento del lavoratore, e le sue conseguenze, presentino i caratteri dell’eccezionalità e dell’abnormità, potendosi attribuire però tale carattere non solo alla condotta del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite (come ad esempio, nel caso che il lavoratore si dedichi a un’altra macchina o a un altro lavoro, magari esorbitando nelle competenze attribuite ad altro lavoratore), ma anche a quella che, pur rientrando nelle mansioni proprie del lavoratore, sia consistita in qualcosa di radicalmente, ontologicamente lontano dalle pur ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro (da queste premesse, rigettando il ricorso del datore di lavoro, la Corte ha comunque escluso potesse attribuirsi il carattere di comportamento abnorme e imprevedibile a un comportamento definito come “istintivo” del lavoratore, che non risultava abnorme ed esorbitante rispetto alla procedura di lavoro da determinare l’interruzione del nesso causale e di cui si doveva piuttosto tener conto nella previsione delle procedure di sicurezza del lavoro). (Cassazione penale, sez. IV, 17/06/2015, n. 29794).
In materia di infortuni sul lavoro, la condotta incauta del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento, anche quando sia riconducibile all’area di rischio propria delle lavorazioni svolte. In tal senso, il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore e le sue conseguenze presentino caratteri di eccezionalità, abnormità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute. (Cassazione penale, sez. IV, 16/11/2016, n. 16123).
Danno
Dal pericolo deriva un possibile danno alla persona fisica. Scopo del D.Lgs 81/08 è attuare tutti i possibili interventi di prevenzione per poter risolvere o quanto meno ridurre i rischi e quindi di conseguenza la frequenza e la gravità dei danni.
Infatti è a partire dagli anni settanta che la materia della sicurezza in ambiente di lavoro ha subito delle importanti evoluzioni. Bene primario infatti non è più la prevenzione del danno ma la prevenzione del rischio.
Il concetto di rischio è infatti a monte rispetto a quella di danno.
Agente rischioso potenzialmente pericoloso
L’agente chimico, fisico o biologico, presente durante il lavoro è potenzialmente dannoso per la salute. Sono riconosciuti quali agenti pericolosi, potenzialmente rischiosi, anche gli agenti non-fisici, non-chimici, non-biologici, come, ad esempio, nel caso della movimentazione manuale dei carichi, dell’esposizione ad attrezzature di lavoro munite di videoterminali, del lavoro notturno, dei rischi psico – sociali come le molestie sessuali o le molestie morali (mobbing).
Infortunio
In merito alla nozione di infortunio sul lavoro possiamo affermare che è l’infortunio occorso per causa violenta in occasione di lavoro, ovvero l’incidente che provoca ad un o più persone, un danno biologico collegato con l’attività lavorativa anche se in modo indiretto e mediato (ad es. in itinere) nel quale si riconoscono le seguenti caratteristiche:
- rilevanza clinica
- nesso causa-effetto
- instaurazione a brevissima distanza di tempo.
L’infortunio in itinere, pertanto, è quell’evento accidentale che può colpire il lavoratore mentre si reca o torna dal lavoro (rischio generico collegato all’attività lavorativa).
GIURISPRUDENZA: Alla stregua di un’interpretazione lett.le nonché logico-sistematica dell’art. 12 del d.lgs. n.38 del 2000, la configurabilità di un infortunio “in itinere” comporta il suo verificarsi nella pubblica strada e, comunque, non in luoghi identificabili in quelli di esclusiva proprietà del lavoratore assicurato o in quelli di proprietà comune, quali le scale ed i cortili condominiali, il portone di casa o i viali di complessi residenziali con le relative componenti strutturali (Nella specie la S.C., in applicazione del principio di cui in massima, ha cassato la decisione della corte territoriale che aveva riconosciuto l’occasione di lavoro nell’infortunio occorso al lavoratore scivolando sul portone di casa mentre si recava al lavoro, sul presupposto che nella nozione di luogo di abitazione, quale inizio del normale percorso per raggiungere la sede lavorativa, dovessero ritenersi incluse anche le pertinenze della stessa, che il lavoratore deve necessariamente percorrere per recarsi nel luogo di lavoro).
L’infortunio “in itinere”, come tale indennizzabile nell’ambito della tutela del lavoratore contro il rischio di infortuni sul lavoro, non è configurabile – oltre che nell’ipotesi di infortunio subito dal lavoratore nella propria abitazione (o nel proprio domicilio o dimora) – anche in quella di infortunio verificatosi nelle scale condominiali od in altri luoghi di comune proprietà privata, atteso che l’indennizzabilità presuppone che l’infortunio si verifichi nella pubblica strada o, comunque, non in luoghi identificabili con quelli di esclusiva (o comune) proprietà del lavoratore assicurato.
L’estensione della protezione assicurativa a tutte le attività in qualche modo prodromiche addirittura alla partenza del lavoratore da casa verso il luogo di lavoro o consecutive e conseguenti al suo rientro porterebbe ad una estensione dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro ad un ambito ben più ampio di quello per il quale è stata istituita, fino a ricomprendervi, in pratica, infortuni occorsi al lavoratore in quanto tale e non in quanto occasionati dalla attività lavorativa.
La copertura assicurativa non può essere estesa a comportamenti che, per il luogo in cui sono posti in essere, non possono ritenersi finalizzati al lavoro sì da determinare l’aggravamento del rischio generico, al quale sono esposti gli altri soggetti.
Diversamente non potrebbe giustificarsi la limitazione della copertura assicurativa antinfortunistica anche agli episodi che dovessero verificarsi nella abitazione dell’assicurato nella fase di preparazione per recarsi al lavoro, ed in relazione ai quali è sempre stata esclusa l’indennizzabilità. (Corte di Cassazione Sezione Lavoro Civile, Sentenza del 16 luglio 2007, n. 15777).
In tema di infortuni sul lavoro, ai fini dell’individuazione del c.d. rischio generico, la cui prevenzione rientra nei compiti del coordinatore per l’esecuzione dei lavori, occorre accertare se lo stesso si riferisce alla conformazione generale del cantiere, non essendo, a tal fine, dirimente il carattere di maggiore o minore difficoltà della singola lavorazione. (In applicazione di tale principio, la Corte di cassazione ha escluso che il rischio da caduta dall’alto sia ontologicamente riconducibile nel novero dei rischi generici, dovendosi accertare in concreto se lo stesso derivi dalla conformazione generale del cantiere ovvero sia riconducibile alla singola lavorazione oggetto del contratto di appalto). (Cassazione penale, sez. IV, 27/09/2016, n. 3288).
NOTA: Ad avviso della giurisprudenza, il requisito della causa violenta sussiste:
– ogni qualvolta un’azione determinata e concentrata nel tempo – ancorché non imprevedibile, straordinaria o accidentale – arrechi danno all’organismo del lavoratore;
– anche quando l’infortunio non sia derivato da una forza esterna al lavoratore o non sia stato determinato da un atto abnorme compiuto dal lavoratore nell’ambito dello svolgimento della sua abituale attività, nel senso che il requisito della causa violenta sussisterebbe anche in caso di sforzo del lavoratore compiuto in condizioni di normale svolgimento dell’attività lavorativa.
È stata peraltro ricompresa nel concetto di causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, posti in rapporto di causa – effetto con la prestazione lavorativa, diano luogo ad invalidità (es.: epatite virale).
GIURISPRUDENZA: In tema di responsabilità penale del datore di lavoro per gli infortuni subiti dai lavoratori sul luogo di lavoro, il compimento da parte del lavoratore di una operazione che, seppur inutile o imprudente, non risulti comunque eccentrica rispetto alle mansioni a lui assegnate nel ciclo produttivo e per la quale sono previste dalla legge misure antinfortunistiche non integra un comportamento abnorme del lavoratore, idoneo cioè a escludere il nesso di causalità tra la condotta omissiva del datore e l’evento lesivo subito dal lavoratore. Ciò posto, nel caso di specie, è stato escluso qualsiasi comportamento anomalo posto in essere dal lavoratore, il quale si era ferito mortalmente in seguito all’utilizzo di un minitrasporter in cattivo stato di manutenzione. La cattiva tenuta del mezzo, unitamente alla mancanza di una adeguata informazione e formazione sul corretto utilizzo dello stesso, sono state ritenute la causa della morte del lavoratore. (Corte appello Palermo, sez. III, 11/02/2016, n. 544).
Esistono due grandi categorie di infortuni sul lavoro:
1 – quelli causati dal cattivo funzionamento degli impianti
2 – quelli dei processi di produzione.
Gli incidenti provocati dai processi erronei di produzione sono dovuti molto spesso alla trascuratezza da parte delle persone delle norme di sicurezza e di rifiuto dell’uso di attrezzature per la protezione fisica.
Malattia professionale
Per la psicologia del lavoro il termine infortunio viene inserito come un evento che determina un danno alla persona che si verifica per ragioni inerenti al compito lavorativo, in un ambiente di lavoro in un certo e particolare periodo di tempo istantano. La malattia è anch’essa un evento che si verifica in un certo tempo in cui le cause sono addebitate all’esercizio del proprio lavoro.
Si considera infatti malattia professionale quella contratta nell’esercizio e a causa della lavorazione alla quale è adibito il lavoratore dalla quale derivi la morte o l’invalidità permanente o l’inabilità temporanea contratta nell’esercizio e a causa della lavorazione alla quale è adibito il lavoratore riconducibile almeno in parte ad uno o più fattori presenti nell’ambiente di lavoro.
SUGGERIMENTO: In particolare, la giurisprudenza riconosce la natura di malattia professionale a quello stato di aggressione dell’organismo del lavoratore – eziologicamente connessa all’attività lavorativa – a seguito e ad esito del quale residua una definitiva alterazione dell’organismo stesso comportante, a sua volta, una riduzione della capacità lavorativa.
Denuncia di malattia professionale
L’art. 52, 2 co., del D.P.R. n. 1124/1965 prevede che la denuncia di malattia professionale sia effettuata dall’assicurato al proprio datore di lavoro entro il termine di quindici giorni dalla sua manifestazione, pena la decadenza dal diritto all’indennizzo per il periodo antecedente la denuncia.
Il successivo art. 53, 5 co., impone che tale denuncia sia trasmessa a sua volta dal datore di lavoro all’Istituto assicuratore, secondo le modalità indicate dall’art. 13 del medesimo D.P.R., entro i cinque giorni successivi a quello nel quale il prestatore ha fatto denuncia al datore di lavoro della manifestazione della malattia.
Sebbene le norme sopra citate prevedano che sia il dipendente ad avviare le procedure per l’erogazione delle prestazioni assistenziali, il disposto dell’art. 52, 1 co., del D.P.R. n. 1124/1965, pur con riferimento agli infortuni, contempla l’ipotesi che il datore di lavoro possa venire “altrimenti a conoscenza” dell’evento, disponendo inoltre nei confronti dell’assicurato che abbia trascurato l’obbligo di informativa la decadenza dal diritto all’indennizzo “per i giorni antecedenti a quello in cui il datore ha avuto notizia dell’infortunio”.
NOTA: Una lettura teleologica delle norme citate consente di cogliere la medesima ratio legis, ossia quella di consentire l’avvio delle procedure per l’erogazione delle prestazioni assistenziali anche mediante la successiva tempestiva denuncia del datore di lavoro, il quale sia venuto comunque a conoscenza dei predetti eventi.
La presentazione della denuncia da parte del datore di lavoro costituisce dunque, sia per l’infortunio che per la malattia professionale, l’atto necessario per l’avvio dei compiti istituzionali dell’Istituto assicuratore in ordine al riconoscimento delle prestazioni assistenziali e consente altresì il rispetto degli adempimenti previsti dalla legge, a nulla rilevando che la notizia dell’evento sia stata acquisita dal lavoratore o dall’INAIL.
Occorre inoltre precisare che l’inoltro della certificazione sanitaria, pur ponendosi come momento centrale ai fini della notizia della tecnopatia contratta dal lavoratore, non è sufficiente ad assicurare il rispetto degli obblighi prescritti dall’art. 53, D.P.R. n. 1124/1965. Infatti, la sanzione amministrativa ivi prevista concerne non solo le violazioni attinenti il rispetto dei termini ma anche quelle relative a omissioni o infedeli indicazioni dei dati richiesti dalla normativa in esame, quali risultano dai commi 4, 5 e 6 del citato articolo.
Se pertanto, come accade nella prassi, l’assicurato presenta il certificato medico direttamente all’Istituto assicuratore anziché al proprio datore di lavoro, il datore di lavoro dovrà comunque presentare la denuncia prevista dalla legge; presentazione che avverrà, in tali ipotesi, su richiesta dell’INAIL (che, del resto, ha avuto notizia per primo della tecnopatia contratta dal lavoratore), come specificato dallo stesso Ente con circolare n. 22/1998 e ribadito nelle successive istruzioni operative del 2 ottobre 2007.
NOTA: Al riguardo occorre tuttavia precisare che l’obbligo di denuncia della malattia professionale da parte del datore di lavoro e dunque l’irrogazione della relativa sanzione in caso di omissione o ritardo risultano comunque subordinati alla trasmissione da parte dell’INAIL, unitamente alla richiesta di denuncia, del certificato medico contenente tutti i requisiti previsti dal citato art. 53, indispensabile allo stesso datore di lavoro per venire a conoscenza dello stato di salute del lavoratore; certificato che, evidentemente, deve avere i medesimi contenuti sia nella copia trasmessa all’Istituto, sia nella copia che l’Istituto stesso trasmette, nei casi indicati, al datore di lavoro.
La legge sulla privacy, del resto, come emerge dallo stralcio del Provvedimento Generale del 2006, consente al datore di lavoro di conoscere lo stato di salute del lavoratore per adempiere a precisi obblighi, tra cui quelli previsti nei confronti dell’INAIL. Al riguardo il Provvedimento ricorda infatti che “tra le fattispecie più ricorrenti deve essere annoverata la denuncia all’Istituto assicuratore avente ad oggetto infortuni e malattie professionali occorsi ai lavoratori; essa, infatti, per espressa previsione normativa, deve essere corredata da specifica certificazione medica (artt. 13 e 53 D.P.R. n. 1124/1965)”.
Va sottolineato, peraltro, che la data di ricezione di richiesta della denuncia rimette in termini (cinque giorni) il datore di lavoro per gli adempimenti di sua competenza, garantendo così a quest’ultimo la possibilità di rispettare agevolmente il dettato normativo.
La tempestività della denuncia è diretta a consentire all’Istituto di verificare la sussistenza del diritto all’indennizzabilità ed altresì a procedere, nel più breve tempo possibile e comunque nel termine di legge, sia alla liquidazione dell’indennità per inabilità temporanea assoluta, sia all’accertamento di eventuali postumi invalidanti di grado indennizzabile (Interpello n. 20/2007 del Min. Lav.).
NOTA: In proposito non vale obiettare che il Legislatore avrebbe sanzionato solo la condotta omissiva e non anche il ritardo nella presentazione della denuncia da parte del datore di lavoro, in quanto il ritardo, ossia l’ottemperanza all’obbligo oltre il termine stabilito dalla legge, costituisce comunque una condotta omissiva nell’arco temporale consentito per l’adempimento stesso, potenzialmente idonea a ledere o a mettere in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma.
Alla luce di quanto esposto, si ritiene pertanto che la sanzione prevista dall’art. 53, 8 co., del D.P.R. n. 1124/1965, come modificata dall’art. 2, lett. b), della L. n. 561/1993, possa trovare applicazione anche in caso di presentazione tardiva, da parte del datore di lavoro, della denuncia di malattia professionale richiesta dall’Istituto assicuratore, sempre che l’Istituto stesso abbia trasmesso al datore unitamente alla richiesta di denuncia copia della certificazione medica di cui all’art. 53.
CASO PRATICO
Ci si interroga in ordine all’applicabilità della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art. 53, co. 8, del D.P.R. n. 1124/1965 a carico del datore di lavoro in caso di denuncia tardiva all’Istituto assicuratore della malattia professionale insorta ad un proprio dipendente ed avente come conseguenza l’inabilità permanente al lavoro.
L’art. 52, co. 2, del D.P.R. n. 1124/1965 prevede che la denuncia della malattia professionale sia fatta dall’assicurato al proprio datore di lavoro entro il termine di quindici giorni dalla sua manifestazione, pena la decadenza del diritto all’indennizzo per il periodo antecedente la denuncia. Il successivo art. 53, co. 5, stabilisce che la tale denuncia deve essere trasmessa dal datore di lavoro all’Istituto assicuratore, secondo le modalità indicate dall’art. 13 del medesimo D.P.R., corredata del certificato medico, “entro i cinque giorni successivi a quello nel quale il prestatore d’opera ha fatto denuncia”. Infine il co. 8 dell’art. 53 sancisce che le violazioni delle disposizioni di cui al co. precedente comportano l’irrogazione di un sanzione amministrativa consistente nel versamento di una somma di denaro, nella misura determinata dall’art. 2 lett. b) della L. n. 561/1993.
Al riguardo si rileva che l’art. 53, co. 5 non contempla alcuna ipotesi di esclusione dall’obbligo della denuncia o dall’obbligo del rispetto del relativo termine di inoltro; può pertanto affermarsi che i suddetti adempimenti costituiscono obblighi di carattere generale, aventi sempre natura cogente quali che siano le conseguenze scaturenti dalla tecnopatia contratta dal lavoratore, compresa anche l’eventuale inabilità permanente al lavoro dell’assicurato.
Invero è proprio la tempestività della denuncia – ed in questo risiede la ratio della norma in questione – a consentire all’Istituto di verificare dapprima, sulla base della documentazione amministrativa e medica acquisita, il diritto all’indennizzabilità e di procedere poi, nel più breve tempo possibile (e comunque non oltre il ventesimo giorno dall’evento) alla liquidazione, in favore dell’assicurato, dell’indennità per inabilità temporanea assoluta, calcolata sulla base della retribuzione media giornaliera degli ultimi quindici giorni precedenti quello dell’insorgenza della malattia professionale.
Tale tempestività consente, inoltre, di accertare anche eventuali postumi invalidanti di grado indennizzabile. In quest’ultimo caso, infatti, sulla base della denuncia di malattia professionale inoltrata dal datore di lavoro, l’INAIL, dopo avere determinato il grado di inabilità permanente residuo, provvede a comunicare all’interessato, entro trenta giorni dalla data del certificato medico definitivo di guarigione clinica, la costituzione delle prestazioni per inabilità permanente, sotto forma di rendita diretta ai sensi dell’art. 74 del D.P.R. n. 1124/1965, se si tratta di malattia professionale denunciata sino al 25 luglio 2000, o sotto forma di indennizzo ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 38/2000, qualora la denuncia sia successiva a tale data.
Gli obblighi di cui all’art. 53, co. 5, del D.P.R. n. 1124/1965, peraltro, non sono venuti meno per effetto delle pronunce della Corte Costituzionale in ordine all’eventuale denuncia tardiva, da parte del lavoratore, della malattia professionale. Invero con la nota sentenza n. 179/1988 la Corte ha introdotto, nell’ordinamento giuridico italiano, il principio dell’obbligatorietà dell’assicurazione contro le malattie professionali anche per malattie diverse da quelle tabellate, purché sia comunque provata la causa di lavoro. Mentre con la nota sentenza n. 206/1988, richiamata impropriamente dall’interpellante, la Corte Costituzionale ha escluso che l’eventuale denuncia tardiva, da parte del lavoratore, possa privarlo automaticamente dell’indennizzo sempreché dimostri che la malattia denunciata sia insorta nei termini tabellari; altrimenti, in caso contrario, il lavoratore sarà onerato della prova circa il carattere professionale della malattia, dovendo indicare specificamente le mansioni svolte, le condizioni di lavoro, la durata giornaliera e il periodo complessiva di esposizione. La Consulta quindi, con la sentenza n. 206/1988, ha dichiarato unicamente “l’illegittimità costituzionale del secondo co. dell’art. 135 del D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124” ( con riferimento agli articoli 38, secondo co., e 3, secondo co., della Costituzione), mentre nulla ha statuito in ordine all’obbligo di denuncia della malattia professionale, gravante invece sul datore di lavoro, come stabilito dall’art. 53, co. 5, del citato D.P.R. n. 1124/65.
Alla luce di quanto esposto, la sanzione prevista dall’art. 53, co. 8, del D.P.R. n. 1124/1965, come modificata dall’art. 2 lett. b) della L. n. 561/1993, deve essere applicata anche in caso di denuncia tardiva, da parte del datore di lavoro, della malattia professionale che abbia dato luogo ad inabilità permanente del lavoratore.
Malattia aspecifica
Per malattia aspecifica intendiamo, invece, un insieme di malattie fisiche e psichiche non direttamente collegabili ad una causa determinata, ma riconducibili almeno in parte ad uno o più fattori dell’ambiente di lavoro. Esse comprendono un gruppo eterogeneo che va dalla stanchezza, dall’insonnia persistente ai disturbi digestivi, all’ulcera gastroduodenale, alle coliti, alle nevrosi, all’artrosi ed all’asma bronchiale, per arrivare forse anche all’ipertensione e ad altre malattie, sempre più frequenti nelle società industriali, di cui non si conosce l’origine.
Prevenzione primaria
La prevenzione nel campo della sicurezza del lavoro consiste nell’azione o serie di azioni che mirano a cautelare dagli infortuni e ad evitarlo. La prevenzione individuata dal D.Lgs. 81/08 è il complesso delle disposizioni o misure prese o previste in tutte le fasi dell’attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno. Scopo della prevenzione è agire sulla fonte del rischio eliminando o riducendo la probabilità che si verifichino eventi dannosi.
GIURISPRUDENZA: In materia di accesso ai documenti, il diritto alla riservatezza del prestatore di lavoro sulle informazioni di carattere sanitario che lo riguardano, quale diritto della personalità, assume una connotazione di immediata rilevanza sostanziale, mentre la cura e la difesa degli interessi giuridici, in quanto limite al precitato diritto va riguardato con specifico riferimento al contenuto dell’interesse concretamente fatto valere; pertanto, l’interesse del datore di lavoro all’aggiornamento dei dati epidemiologici ai fini della realizzazione dei programmi di prevenzione primaria in azienda è recessivo rispetto al diritto di riservatezza del prestatore di lavoro. (T.A.R., (Umbria), 10/03/1995, n. 84).
La prevenzione deve svolgersi secondo modalità predefinite che consistono nella valutazione dei rischi, nella redazione del documento di sicurezza, nell’organizzazione di una specifica funzione aziendale denominata servizio di prevenzione e protezione, nella designazione di addetti alle procedure di sicurezza, nell’elaborazione di programmi di informazione e formazione dei lavoratori.
In particolare la prevenzione primaria si articola in misure tecniche, organizzative e procedurali e nell’uso di idonei DPI (per periodi temporanei, lavori eccezionali e di breve durata, per ridurre la quota ineliminabile di rischio, etc.).
Prevenzione secondaria
La prevenzione secondaria si basa sulla tutela psicofisica del lavoratore così come disciplinato nel D.Lgs. 81/08 avuto riguardo alle condizioni nelle quali esso si effettua e del conseguente adattamento fisico e mentale dei lavoratori nello svolgimento delle attività a cui sono preposti.
Norma tecnica
Le norme tecniche sono specifiche tecniche, approvate e pubblicate da un’organizzazione internazionale, da un organismo europeo o da un organismo nazionale di normalizzazione, la cui osservanza non sia obbligatoria.
Buona prassi
Per buona prassi si intendono le soluzioni organizzative o procedurali coerenti con la normativa vigente e con le norme di buona tecnica, adottate volontariamente e finalizzate a promuovere la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro attraverso la riduzione dei rischi e il miglioramento delle condizioni di lavoro, elaborate e raccolte dalle regioni, dall’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL), dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) e dagli organismi paritetici (art. 51), validate dalla Commissione consultiva permanente (art. 6), previa istruttoria tecnica dell’ISPESL, che provvede a assicurarne la più ampia diffusione.
Linee guida
Per linee guida si intendono gli atti di indirizzo e coordinamento per l’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza predisposti dai Ministeri, dalle regioni, dall’ISPESL e dall’INAIL e approvati in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.
Formazione, Informazione e Addestramento
Per formazione si intende il processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi.
L’informazione è il complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro.
L’addestramento è il complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro.
Modello di organizzazione e gestione
Il modello di organizzazione e gestione è quel modello organizzativo e gestionale che per la definizione e l’attuazione di una politica aziendale per la salute e sicurezza, ai sensi dell’art. 6, co. 1, lett. a), del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, è idoneo a prevenire i reati di cui agli art. 589 e 590, 3 co., del codice penale, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela della salute sul lavoro.
Organismi paritetici
Gli organismi paritetici sono gli organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, quali sedi privilegiate per:
- la programmazione di attività formative e l’elaborazione e la raccolta di buone prassi a fini prevenzionistici;
- lo sviluppo di azioni inerenti alla salute e alla sicurezza sul lavoro; l’assistenza alle imprese finalizzata all’attuazione degli adempimenti in materia;
- ogni altra attività o unzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento.
Responsabilità sociale delle imprese
La responsabilità sociale delle imprese è l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle aziende e organizzazioni nelle loro attività commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate.
GIURISPRUDENZA: In materia di sicurezza del lavoro nelle organizzazione societarie complesse possono assumere posizioni di garanzia anche i componenti del comitato esecutivo (c.d. “board”), ove sia ravvisabile la loro reale partecipazione ai processi decisori, cioè la loro ingerenza nelle scelte decisionali e nell’ambito operativo della società, con particolare riferimento alle condizioni di igiene e sicurezza del lavoro. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva assolto i componenti del comitato esecutivo di una società dal reato di omicidio colposo ai danni di lavoratori esposti ad amianto, sia perché il comitato non si era mai riunito, sia perché attribuzioni e poteri erano stati “di fatto, in modo sostanziale” delegati all’amministratore delegato e a determinati soggetti non componenti del comitato esecutivo né membri del consiglio d’amministrazione). (Cassazione penale, sez. IV, 10/11/2017, n. 55005).
Principio di effettività
In tema di infortuni sul lavoro l’individuazione dei soggetti destinatari della relativa normativa deve essere operata sulla base dell’effettività e concretezza delle mansioni e dei ruoli svolti. Infatti esemplare è l’inquadramento dell’organizzazione aziendale dal punto di vista del principio di effettività che chiarisce che per identificare il datore di lavoro ai fini prevenzionistici ciò che conta non è individuare chi detiene il potere di rappresentanza dell’azienda (direttore, legale rappresentante) bensì capire chi detiene l’esercizio effettivo del potere organizzativo e direttivo.
GIURISPRUDENZA: Incarichi scritti e deleghe sono irrilevanti qualora non corrispondano alla organizzazione sostanziale presente in azienda (principio di effettività): “in tema di infortuni sul lavoro, l’individuazione dei soggetti destinatari della relativa normativa deve essere operata sulla base dell’effettività e concretezza delle mansioni e dei ruoli svolti”. L’elevazione del criterio di effettività a cardine dell’intero sistema di responsabilità prevenzionistiche, conduce al pieno riconoscimento legislativo della legittimità (e se vogliamo: dell’inevitabilità) di una delega di funzioni avente efficacia pienamente liberatoria, secondo la visione della teoria giuridica “funzionalistica”, e permette pure di risolvere l’annosa questione dell’imputazione delle responsabilità infortunistiche all’interno delle persone giuridiche. I poteri decisionali devono essere effettivamente trasferiti in capo al delegato, attribuendogli effettivamente una completa autonomia di gestione ed una piena e completa disponibilità economica. (Cass. Penale, sez. IV, 20 aprile 1989, n. 6025).
L’intriseca connessione dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 del Cc con la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e la correlata responsabilità posta dalla norma a carico del datore di lavoro implicano necessariamente che quest’ultimo non può invocare come fatto liberatorio l’aver delegato a terzi l’adempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure di sicurezza necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, permanendo a suo carico, a norma dell’art. 1228 del Cc, la responsabilità civile per i fatti dolosi e colposi di costoro. (Corte di Cassazione Sezione Lavoro Civile, Sentenza del 11 aprile 2005, n. 7360).
In materia di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro può trasferire la propria posizione di garanzia, relativa agli obblighi di prevenzione e sorveglianza impostigli dalle norme antinfortunistiche, solo attraverso un formale provvedimento di delega ad altro soggetto subentrante, con esplicita indicazione delle funzioni e accettazione della delega, che preveda l’attribuzione al delegato di poteri autoritativi e decisori autonomi, pari a quelli dell’imprenditore, e che consenta anche l’accesso ai mezzi finanziari; fermo restando, poi, l’obbligo per il datore di lavoro delegante di vigilare e controllare che il delegato usi concretamente la delega secondo quanto la L. prescrive. (Corte di Cassazione Sezione 4 Penale, Sentenza del 3 ottobre 2007, n. 36121).
Nelle imprese di grandi dimensioni non è possibile attribuire tout court all’organo di vertice la responsabilità per l’inosservanza della normativa di sicurezza, occorrendo sempre apprezzare non solo l’apparato organizzativo che si è costituito, sì da poter risalire, all’interno di questo, al responsabile di settore, ma anche se il direttore generale con delega in materia antinfortunistica sia stato messo in condizioni di intervenire, in quanto portato a conoscenza della prassi lavorativa vigente nell’azienda pericolosa per la salute dei lavoratori (fattispecie relativa alla contestazione della responsabilità in capo al direttore dello stabilimento e al direttore generale, con delega in materia di sicurezza del lavoro, per il reato di lesioni personali colpose aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno di un lavoratore; nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza di condanna nei confronti del direttore generale, in ragione del breve spazio di tempo intercorso tra l’assunzione dell’incarico ed il verificarsi dell’evento, con conseguente necessità di accertare la concreta situazione in cui versava l’imputato al momento dell’infortunio con riferimento alla sussistenza in capo al medesimo di un’adeguata consapevolezza delle modalità della particolare fase di lavorazioni del processo produttivo in cui si era verificato l’infortunio). (Cassazione penale, sez. IV, 24 febbraio 2015, n. 13858).
La validità della delega degli obblighi di cui è destinatario il datore di lavoro in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, quando la stessa non è espressa ma si assume implicita nella ripartizione di funzioni imposta dalla complessità dell’organizzazione aziendale, dipende comunque dalle dimensioni dell’impresa in sé considerata. (Cassazione penale, sez. IV, 23 ottobre 2014, n. 49670).
In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, ai fini dell’individuazione del garante nelle strutture aziendali complesse occorre fare riferimento al soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio essendo, comunque, generalmente riconducibile alla sfera di responsabilità del preposto l’infortunio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa; a quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell’organizzazione dell’attività lavorativa e a quella del datore di lavoro, invece, l’incidente derivante da scelte gestionali di fondo. (In motivazione la Corte ha precisato che deve ritenersi, comunque, responsabile il datore di lavoro, per il potere-dovere generale di vigilanza su di lui gravante, in tutte le ipotesi in cui l’organizzazione aziendale non presenta complessità tali da sollevare del tutto l’organo apicale dalle responsabilità connesse gestione del rischio). (Cassazione penale, sez. IV, 06/05/2016, n. 24136).
Misure generali di tutela
Le misure generali per la protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori sono ampiamente esplicitate nei vari commi dell’art. 15, del D.Lgs. 81/08. Tra le misure principali prese in considerazione vi sono: la valutazione dei rischi per la salute e sicurezza, l’eliminazione dei rischi stessi in relazione alle conoscenze acquisite in base al processo tecnico, la riduzione dei rischi alla fonte, la programmazione della prevenzione, la sostituzione di ciò che è pericoloso, il rispetto dei principi ergonomici, le priorità delle misure di protezione collettiva, il controllo sanitario dei lavoratori, le misure igieniche, l’uso di segnali di avvertimento e di sicurezza, la regolare manutenzione ed infine l’informazione, la formazione, la consultazione e la partecipazione dei lavoratori.
CASO PRATICO
Ci si interroga in merito a due punti:
- tenuto conto che in tutti i settori produttivi in cui vi sono mansioni di sicurezza attinenti all’incolumità dei lavoratori e dei terzi, vi può essere l’esigenza di monitorare la cosiddetta “vigilanza” dell’operatore e fermo restando l’obbligo giuridico delle aziende a garantire misure di tutela della salute e della sicurezza anche in caso di errore, disattenzione e imprudenza dell’operatore, tale obbligo può ritenersi assolto con l’adozione di misure e dispositivi per il controllo della “vigilanza”, individuati e adottati dalla stessa impresa senza che essa – pur nella sua complessità connessa al fattore umano – sia stata preventivamente definita in termini oggettivi, al fine di consentire alle Istituzioni ed in particolare all’Organo di vigilanza di verificarne la rispondenza alle concrete necessità in relazione all’efficacia dei dispositivi alle misure organizzative adottate e alle altre norme poste a tutela dei lavoratori e dei terzi;
- l’obbligo giuridico posto dalla legge in capo alle aziende – comprese quelle che eserciscono il trasporto ferroviario – di adottare nell’esercizio dell’attività produttiva le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, può ritenersi assolto – in tema di “controllo della vigilanza” degli operatori impiegati in attività rischiose – con il solo assenso di conformità dei dispositivi ritenuti dalle stesse più convenienti, del Ministero dei trasporti e dell’ANSF o tale obbligo deve essere inteso nel senso che le stesse debbano, necessariamente, ricercare, adottare ed avvalersi di mezzi, metodi, tecnologie e sistemi, tecnicamente realizzabili, di concezione più moderna, quando questi siano tali da migliorare, ai sensi del D.lgs. 81/2008, le condizioni di salute, sicurezza e benessere lavorativo.
In merito si rappresenta che, nell’ambito del trasporto ferroviario, l’adozione di strumenti per il controllo dell’attività del “macchinista” è da ritenersi obbligatoria sulla base di norme nazionali ed europee, pertanto il datore di lavoro è tenuto all’osservanza delle prescrizioni ivi previste. Inoltre, si evidenzia che l’assenso di conformità dei dispositivi per il controllo della vigilanza del macchinista da parte del Ministero dei Trasporti e dell’Agenzia Nazionale per la sicurezza ferroviaria, non determina di per sé una presunzione di conformità alle disposizioni previste dal D.Lgs. n. 81/2008 e successive modificazioni. In particolare, pur non rientrando la specifica problematica nell’ambito generale della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro, si rinvia a quanto già precisato nella risposta all’interpello n. 5/2018: «in merito alla “correttezza dell’utilizzo di qualsiasi dispositivo (vigilante) omologato unitamente alla locomotiva”, si rileva che, anche se conforme agli standard europei e nazionali, il datore di lavoro debba valutarne l’impatto sulla salute e sicurezza dei lavoratori nell’ambito della valutazione dei rischi di cui agli artt. 17 e 28 del citato D.Lgs. n. 81/2008, non potendo l’omologazione in ambito di interoperabilità ferroviaria fungere da presunzione di conformità del dispositivo alle norme previste dal richiamato decreto legislativo.
Si evidenzia, altresì, quanto previsto dall’art. 15, co. 1, lett. d) del richiamato D.Lgs. n. 81/2008 che, tra le misure generali di sicurezza a carico del datore di lavoro, individua anche “il rispetto dei principi ergonomici nella organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo”. Pertanto, il datore di lavoro, nell’ambito della valutazione dei rischi, dovrà porre in essere tutte le misure tecnologicamente adottabili, tali da eliminare o ridurre gli effetti pregiudizievoli sulla salute del lavoratore compresi quelli riferiti al lavoro monotono e ripetitivo.
CASO PRATICO
Ci si interroga in merito a due punti:
- “[…] al modulo di condotta per i treni merci sul territorio italiano ad un solo macchinista in modo da fornire criteri interpretativi e direttivi per l’attività di vigilanza”;
- all’utilizzo “del dispositivo vigilante e più in generale in merito alla correttezza dell’utilizzo di qualsiasi dispositivo omologato unitamente alla locomotiva stessa (se utilizzata dai macchinisti nel rispetto dei turni previsti dal DLGS. 23 dicembre 2010 n. 264) in modo da fornire criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio dell’attività di vigilanza”.
Per quanto concerne il primo punto, si rinvia al caso precedente. Per quanto riguarda il secondo punto, si ritiene di non potersi esprimere sulla necessità di “utilizzo del dispositivo vigilante” (definito come “strumento di controllo dell’attività del macchinista” nel Regolamento (UE) n. 1302/2014 relativo a una specifica tecnica di interoperabilità per il sottosistema “Materiale rotabile – Locomotive e materiale rotabile per il trasporto di passeggeri” del sistema ferroviario dell’Unione europea), indipendentemente dalla particolare tipologia del dispositivo. In merito alla “correttezza dell’utilizzo di qualsiasi dispositivo (vigilante) omologato unitamente alla locomotiva”, si rileva che, anche se conforme agli standard europei e nazionali, il datore di lavoro debba valutarne l’impatto sulla salute e sicurezza dei lavoratori nell’ambito della valutazione dei rischi di cui agli artt. 17 e 28 del citato D.Lgs. n. 81/2008, non potendo l’omologazione in ambito di interoperabilità ferroviaria fungere da presunzione di conformità del dispositivo alle norme previste dal richiamato decreto legislativo. Si evidenzia, altresì, quanto previsto dall’art. 15 co. 1, lett. d) del richiamato D.Lgs. n. 81/2008 che, tra le misure generali di sicurezza a carico del datore di lavoro, individua anche “il rispetto dei principi ergonomici nella organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo”. Pertanto, il datore di lavoro, nell’ambito della valutazione dei rischi, dovrà porre in essere tutte le misure tecnologicamente adottabili, tali da eliminare o ridurre gli effetti pregiudizievoli sulla salute del lavoratore compresi quelli riferiti al lavoro monotono e ripetitivo.
3. Criteri di computo dei lavoratori
Le maggiori novità del Testo Unico sono contenute nel Titolo I che riconosce una tutela piena a tutti i prestatori di lavoro che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolgono un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari (art. 2, co. 1, lett. a).
Precedentemente al Testo Unico l’esistenza di una prestazione svolta in regime di subordinazione ossia di una prestazione svolta in una situazione di soggezione al potere gerarchico direttivo e disciplinare di un datore di lavoro e dei collaboratori di queste da cui gerarchicamente dipende il lavoratore era il presupposto da cui il legislatore faceva derivare l’applicazione delle norme protettive.
Erano pertanto esclusi dalla tutela prevenzionistica i lavoratori autonomi, i lavoratori con rapporto di agenzia e di rappresentanza commerciale, gli associati in partecipazione e i soci di cooperative o di società anche di fatto che non prestino attività lavorativa.
L’art. 2, D.Lgs. 81/2008 supera dunque la precedente impostazione del D.Lgs. 626/94, nella quale il lavoratore tutelato era inteso come subordinato ai sensi dell’art. 2094 c.c. e considera del tutto irrilevante la forma contrattuale prescelta.
Il decreto in commento prevede quindi l’ampliamento del campo di applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza rientrando tra questi anche i lavoratori impegnati in attività solidaristiche e senza fini di lucro, i soci di cooperative e di società e i tirocinanti.
NOTA: Tra le categorie di volontari sono computati non solo coloro che si occupano di sanità, assistenza sociale, attività ricreative, sportive, ambientali, ma anche i volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, della protezione civile e quelli che effettuano il servizio civile.
GIURISPRUDENZA: La definizione di “lavoratore”, di cui all’art. 2, co. primo, lett. a), D.Lgs. n. 81 del 2008, fa leva sullo svolgimento dell’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione del datore di lavoro indipendentemente dalla tipologia contrattuale, ed è definizione più ampia di quelle previste dalla normativa pregressa, che si riferivano invece al “lavoratore subordinato” (art. 3, d.P.R. n. 547 del 1955) e alla “persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro” (art. 2, co. primo, lett. a, D.Lgs. n. 626 del 1994); ne consegue che, ai fini dell’applicazione delle norme incriminatrici previste nel decreto citato, rileva l’oggettivo espletamento di mansioni tipiche dell’impresa (anche eventualmente a titolo di favore) nel luogo deputato e su richiesta dell’imprenditore, a prescindere dal fatto che il “lavoratore” possa o meno essere titolare di impresa artigiana ovvero lavoratore autonomo. (Fattispecie di impiego di lavoratori che, pur formalmente titolari di ditte artigianali, prestavano in assenza di autonomia la propria attività alle dipendenze di soggetto imprenditore privo di propri dipendenti). (Cassazione penale, sez. III, 15/03/2017, n. 18396).
L’esistenza di una prestazione svolta in regime di subordinazione ossia di una prestazione svolta in una situazione di soggezione al potere gerarchico direttivo e disciplinare di un datore di lavoro e dei collaboratori di queste da cui gerarchicamente dipende il lavoratore è il presupposto da cui il legislatore fa derivare l’applicazione delle norme protettive.
Sono pertanto esclusi dalla tutela prevenzionistica i lavoratori autonomi, i lavoratori con rapporto di agenzia e di rappresentanza commerciale, gli associati in partecipazione e i soci di cooperative o di società anche di fatto che non prestino attività lavorativa.
Studi professionali
In merito poi agli studi professionali costituiti sia da un solo professionista titolare che da più contitolari, il D.Lgs. 81/08 si applica solo ove all’interno vi siano uno o più lavoratori subordinati o collaboratori.
Collaboratori familiari
Tra i soggetti esclusi poi dalla normativa in commento vi sono inoltre i collaboratori familiari (il coniuge, i parenti entro il 3° grado, gli affini entro il 2° grado) poiché non sono inquadrabili ne nella categoria dei lavoratori con rapporto di lavoro subordinato ne comunque in un rapporto diverso da quello basato sull’interesse familiare.
Non è ipotizzabile nemmeno desumere in via interpretativa un inclusione dei datori di lavoro delle aziende familiari tra i soggetti destinatari di alcuni obblighi dal momento che il datore di lavoro delle aziende familiari si distingue per la possibilità di organizzare nella sua impresa sia il lavoro dei collaboratori familiari sia il lavoro di terzi salariati.
Impresa artigiana
In merito all’impresa artigiana sono prospettabili due ordini di ipotesi.
Nel caso di un’impresa artigiana costituita in forma individuale, la tutela antinfortunistica e di igiene è obbligatoria se i collaboratori familiari prestino la loro attività in maniera continuativa e sotto la direzione di fatti del titolare se invece tale subordinazione non si verifica e il familiare svolge saltuariamente e gratuitamente la propria attività la tutela non va apprestata.
Esclusione dal campo della tutela
Sono altresì esclusi dal D.Lgs. 81/08 secondo l’art. 3, dal computo gli allievi degli istituti di istruzione ed universitari e i partecipanti ai corsi di formazione professionale, i lavoratori in prova i sostituti dei lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto e i volontari come definiti dalla L. 11 agosto 1991, n. 266.
Infine per quanto attiene ai dipendenti assunti a termine il loro computo avviene solo se il loro inserimento risulti necessario per la realizzazione del ciclo produttivo e con particolare riguardo alle aziende agricole gli stagionali vanno computati solo se compresi nell’organigramma dell’azienda.
NOTA: Va ricordato che dal 24 ottobre 2003 è entrato in vigore il D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 in applicazione della cosiddetta “Legge Biagi”. L’art. 74 (il cui titolo è “Prestazioni che esulano dal mercato del lavoro”) del provvedimento così dispone: “Con specifico riguardo alle attività agricole non integrano in ogni caso un rapporto di lavoro autonomo o subordinato le prestazioni svolte da parenti e affini sino al terzo grado in modo meramente occasionale o ricorrente di breve periodo, a titolo di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale senza corresponsione di compensi, salvo le spese di mantenimento e di esecuzione dei lavori”.
Ai fini della determinazione del numero di lavoratori dal quale il D.Lgs. 81/08 fa discendere particolari obblighi non sono computati:
- a) i collaboratori familiari di cui all’art. 230-bis del codice civile;
- b) i soggetti beneficiari delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento di cui all’art. 18 della L. 24 giugno 1997, n. 196, e di cui a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro;
- c) gli allievi degli istituti di istruzione e universitari e i partecipanti ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le attrezzature munite di videoterminali;
- d) i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo determinato, ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, in sostituzione di altri prestatori di lavoro assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro;
- e) i lavoratori che svolgono prestazioni occasionali di tipo accessorio ai sensi degli articoli 70, e seguenti, del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, nonché prestazioni che esulano dal mercato del lavoro ai sensi dell’art. 74 del medesimo decreto.
- f) i lavoratori di cui alla L. 18 dicembre 1973, n. 877, ove la loro attività non sia svolta in forma esclusiva a favore del datore di lavoro committente;
- g) i volontari, come definiti dalla L. 11 agosto 1991, n. 266, i volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e della protezione civile e i volontari che effettuano il servizio civile;
- h) i lavoratori utilizzati nei lavori socialmente utili di cui al D.Lgs. 1° dicembre 1997, n. 468, e successive modificazioni;
- i) i lavoratori autonomi di cui all’art. 2222 c.c., fatto salvo quanto previsto dalla successiva lett. l);
- l) i collaboratori coordinati e continuativi di cui all’art. 409, 1 co., n. 3, del codice di procedura civile, nonché i lavoratori a progetto di cui agli articoli 61 e seguenti del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, ove la loro attività non sia svolta in forma esclusiva a favore del committente.
CASO PRATICO
Ci si interroga in merito all’applicazione dell’art. 3, 2 co., del D.Lgs. n. 81/2008 per il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. In particolare si vuole esaminare quanto riportato nel testo dell’articolo citato ovvero: “le disposizioni del presente D.Lgs. sono applicate tenendo conto delle effettive particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle peculiarità organizzative”.
Al riguardo va premesso che l’art. 3, 2 co., del D.Lgs. n. 81/2008 prevede nei “riguardi delle Forze armate e di Polizia, del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, dei servizi di protezione civile, nonché nell’ambito delle strutture giudiziarie, penitenziarie, di quelle destinate per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica, […], disposizioni del presente D.Lgs. sono applicate tenendo conto delle effettive particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle peculiarità organizzative ivi comprese quelle per la tutela della salute e sicurezza del personale nel corso di operazioni ed attività condotte dalle Forze armate, compresa l ‘Arma dei Carabinieri, nonché dalle altre Forze di polizia e dal Corpo dei Vigili del fuoco, nonché dal Dipartimento della protezione civile fuori dal territorio nazionale, individuate […] con decreti emanati, ai sensi dell’art. 17, 3 co., della legge 23 agosto 1988, n. 400, […]”.
Il successivo co. prevede poi che “fino all’emanazione dei decreti di cui al co. 2, sono fatte salve le disposizioni attuative dell’art. 1, co. 2, del D.Lgs. 19 settembre 1993, n. 626, […]”.
Attualmente, nelle more dell’emanazione dei predetti decreti, rimane in vigore il D.M. 14 giugno 1999, n. 450 Regolamento recante norme per l’individuazione delle particolari esigenze connesse al servizio espletato nelle strutture della Polizia di Stato, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e degli uffici centrali e perferici dell’amministruzione della pubblica sicurezza, comprese le sedi delle autorità aventi competenze in materia di ordine e sicurezza pubblica, di protezione civile e di incolumità pubblica, delle quali occorre tener conto nell’applicazione delle disposizioni concernenti il miglioramento della sicurezza e salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
Si evidenzia inoltre che tale decreto va oggi applicato tenendo conto del disposto dell’art. 304, co. 3, del D.Lgs. n. 81/2008 che prevede “fino all’emanazione dei decreti legislativi di cui al co. 2 (decreti con i quali si dovrà provvedere all’armonizzazione delle disposizioni del D.Lgs. n. 81/2008 con quelle contenute in leggi o regolamenti che dispongono rinvii a norme del D.Lgs. n. 626/1994), laddove disposizioni di legge o regolamentari dispongano un rinvio a norme del D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626, e successive modificazioni, ovvero ad altre disposizioni abrogate dal co. 1, tali rinvii si intendono riferiti alle corrispondenti norme del presente D.Lgs.”.
GIURISPRUDENZA: In tema di somministrazione di lavoro, al regime legale, che fa gravare le responsabilità di formazione e d’informazione sul somministratore e quelle conseguenti agli infortuni sul lavoro sull’utilizzatore, si può derogare, in virtù del principio di effettività, traslando tutte le responsabilità in capo all’utilizzatore, purché tale deroga sia contenuta anche nel contratto stipulato con il lavoratore. (Cassazione civile, sez. lav., 09/05/2018, n. 11170).
Qualora sia applicabile, ”ratione temporis”, il disposto di cui all’art. 20, co. 5, D.Lgs. n. 276 del 2003, è vietato per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626 stipulare contratti di somministrazione. (Cassazione civile, sez. lav., 06/10/2016, n. 20060).
Il numero dei lavoratori impiegati per l’intensificazione dell’attività in determinati periodi dell’anno nel settore agricolo e nell’ambito di attività diverse da quelle indicate in precedenza, corrispondono a frazioni di unita-lavorative-anno (ULA) come individuate sulla base della normativa comunitaria.
I lavoratori utilizzati mediante somministrazione di lavoro ai sensi degli art. 20, e seguenti, del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, e i lavoratori assunti a tempo parziale ai sensi del D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, e successive modificazioni, si computano sulla base del numero di ore di lavoro effettivamente prestato nell’arco di un semestre.
Fatto salvo quanto previsto in precedenza, nell’ambito delle attività stagionali definite dal D.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525 e successive modificazioni, nonché di quelle individuate dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative, il personale in forza si computa a prescindere dalla durata del contratto e dall’orario di lavoro effettuato.
CASO PRATICO
Ci si interroga in merito a tre quesiti:
- applicabilità del D.Lgs. n. 81/2008 negli ambiti del Dipartimento della Pubblica Sicurezza;
- obbligo del Dipartimento della Pubblica Sicurezza di dover:
- a) documentare compiutamente la valutazione dei rischi; in particolare per poter ritenere esclusa la presenza di un rischio nell’ambito di un’attività lavorativa, si debba svolgere una effettiva e concreta attività accertativa (misure tecniche, rilevazioni, analisi strumentali, richiami a parametri scientifici, ecc.), riscontrabili da documentazione, che ne dimostri concretamente l’assenza;
- b) effettuare la valutazione del rischio stress lavoro-correlato;
- c) provvedere alla formazione di tutti i lavoratori;
- d) individuare il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza secondo le previsioni del D.Lgs. n. 81/2008, in particolare se negli ambiti del Dipartimento della Pubblica sicurezza, nei luoghi di lavoro con più di 15 lavoratori e dove sono presenti le rappresentanze sindacali, queste ultime possano autonomamente individuare il/i RLS, non coinvolgendo quindi i lavoratori.
- i limiti di applicazione dell’istituto della delega di funzioni; in particolare se si possa procedere a deleghe di funzione nei riguardi di dipendenti solo in ragione del ruolo che gli stessi rivestono all’interno dell’azienda o unità produttiva nei casi in cui, […] nei loro riguardi non sia mai stata svolta alcuna attività di informazione e formazione, senza che gli stessi posseggano specifiche o particolari conoscenze in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro e non siano titolari di alcun autonomo potere di spesa riferito alle funzioni delegate. In merito al primo quesito, l’art. 3, co. 2, del D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni prevede che “Nei riguardi delle Forze armate e di Polizia, del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, dei servizi di Protezione Civile, nonché nell’ambito delle strutture giudiziarie, penitenziarie, di quelle destinate per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica, […], le disposizioni del presente D.Lgs. sono applicate tenendo conto delle effettive particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle peculiarità organizzative ivi comprese quelle per la tutela della salute e sicurezza del personale nel corso di operazioni ed attività condotte dalle Forze armate, compresa l’Arma dei Carabinieri, nonché dalle altre Forze di polizia e dal Corpo dei Vigili del fuoco, nonché dal Dipartimento della protezione civile fuori dal territorio nazionale, individuate[…] con decreti emanati, ai sensidell’art. 17, co. 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, […]”. Il successivo co. prevede poi che “fino all’emanazione dei decreti di cui al co. 2, sono fatte salve le disposizioni attuative dell’art. 1, co. 2, del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, […]”. Attualmente, nelle more dell’emanazione dei predetti decreti, rimane in vigore il D.M. 14 giugno 1999, n. 450 Regolamento recante norme per l’individuazione delle particolari esigenze connesse al servizio espletato nelle strutture della Polizia di Stato, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e degli uffici centrali e periferici dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, comprese le sedi delle autorità aventi competenze in materia di ordine e sicurezza pubblica, di protezione civile e di incolumità pubblica, delle quali occorre tener conto nell’applicazione delle disposizioni concernenti il miglioramento della sicurezza e salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Il suddetto decreto va oggi applicato tenendo conto del disposto dell’art. 304, co. 3, del D.Lgs. n. 81/2008 che prevede “fino all’emanazione dei decreti legislativi di cui al co. 2 (decreti con i quali si dovrà provvedere all’armonizzazione delle disposizioni del D.Lgs. n. 81/2008 con quelle contenute in leggi o regolamenti che dispongono rinvii a norme del D.Lgs. n. 626/1994), laddove disposizioni di legge o regolamentari dispongano un rinvio a norme del D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626, e successive modificazioni, ovvero ad altre disposizioni abrogate dal co. 1, tali rinvii si intendono riferiti alle corrispondenti norme del presente D.Lgs.”. Per quanto concerne il punto a) del secondo quesito, inerente la valutazione dei rischi, occorre riportare quanto previsto dall’art. 28, co. 1, del D.Lgs. n. 81/2008: “la valutazione di cui all’art. 17, co. 1, lett. a), […], deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, […]”. Il co. 3 del citato articolo stabilisce che “il contenuto del documento di cui al co. 2 deve altresì rispettare le indicazioni previste dalle specifiche norme sulla valutazione dei rischi contenute nei successivi titoli del presente decreto”. Tutte le attività finalizzate alla valutazione dei rischi e alla redazione del Documento sono svolte adottando criteri e metodi diretti all’individuazione di tutti i rischi presenti all’interno dei luoghi di lavoro o ai quali gli stessi lavoratori possono essere esposti durante lo svolgimento delle loro mansioni. Il documento di valutazione dei rischi contiene “una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa”. L’art. 28, co. 2, lett. a), del D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce che “la scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro, che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo da garantirne la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione”. Pertanto, si ritiene che l’esito della valutazione dei rischi, sulla base del quale può essere evidenziato o meno la sussistenza di un rischio e la sua entità, debba essere suffragato da elementi di valutazioni la cui metodologia, concordata con gli altri soggetti (RSPP, medico competente), rientra nelle prerogative del datore di lavoro. In relazione a questo ultimo aspetto il datore di lavoro valuterà, con riferimento al caso in concreto, la necessità di eseguire delle analisi strumentali a supporto della valutazione dei rischi. In merito al punto b del secondo quesito, considerato che – come già sopra esposto – è obbligo del datore di lavoro valutare tutti i rischi, ne consegue che tra essi deve esserci anche il rischio da stress lavoro-correlato. Le particolari esigenze connesse al servizio espletato, attualmente disciplinate dal DM 450/1999, non incidono sull’obbligo di valutazione di questo fattore di rischio. In merito al punto c del secondo quesito, il datore di lavoro deve formare tutti i lavoratori, i dirigenti e i preposti, in base alle loro attribuzioni e competenze, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008. In merito al punto d del secondo quesito, inerente l’individuazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, il D.Lgs. n. 81/2008 stabilisce le regole minime da rispettare, rinviando alla contrattazione collettiva le modalità di elezione o designazione da parte dei lavoratori, numero e formazione, ecc. per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Pertanto nel comparto della Pubblica Amministrazione bisognerà tener conto delle indicazioni provenienti dall’ARAN. In ordine al terzo quesito, relativo ai limiti di applicazione della delega di funzioni, occorre evidenziare che l ’art. 16 del D.Lgs. n. 81/2008 prevede, per il datore di lavoro, la possibilità di delegare i propri obblighi, ad eccezione della valutazione dei rischi e relativo documento e la designazione del RSPP, ad altro soggetto dotato dei requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate. Perché la delega sia efficace è necessario che abbia tutte le caratteristiche previste dal citato art. 16, ivi compresi, relativamente al quesito così come formulato, quelli previsti alla lett. b) e d) di seguito riportati:
- b) che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
- d) che essa attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate.
Pertanto non può essere considerata valida una delega rilasciata in difetto di uno qualunque dei requisiti specificatamente previsti dall’art. 16 del D.Lgs. n. 81/2008, con la conseguenza che i poteri formalmente conferiti al soggetto delegato restano in capo al soggetto delegante.
4. Qual è il legame tra contratti di lavoro flessibile e sicurezza sul lavoro?
Premessa
La tormentata disciplina sul lavoro a termine ancora una volta è finita sotto i riflettori della giurisprudenza; il profilo esaminato anche in questo caso è di notevole rilevanza in quanto s’incrocia con la tutela del diritto alla salute del cittadino lavoratore, bene costituzionalmente protetto (artt. 32 e 41, co. 1, Cost.), che nel corso degli ultimi anni è stato posto al centro del dibattito in ordine ai riflessi sullo stesso delle forme d’impiego cd. flessibili che hanno trovato, specie nell’ultimo decennio, una notevole diffusione.
Per ciascuna tipologia di contratto flessibile (contratto a tempo determinato, somministrazione di lavoro e lavoro a chiamata) la legge dispone specifici obblighi formali o comunque presupposti di validità, che vanno dalla specificazione delle motivazioni nel contratto a tempo determinato alla ricorrenza di determinati requisiti di iscrizione in capo alla società che esercita professionalmente la somministrazione di manodopera, fino alla necessità di requisiti oggettivi o soggettivi per ricorrere al contratto di lavoro a chiamata.
Tuttavia, accanto agli specifici requisiti di legge per la stipulazione dei contratti, sono previsti casi che escludono l’utilizzo di queste tipologie contrattuali.
Tra questi, una specifica previsione è relativa all’assolvimento da parte delle aziende degli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro, ed in particolare, dell’obbligo di effettuazione della valutazione dei rischi.
In materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro, infatti, uno dei principali adempimenti imposti dalla normativa in capo al datore di lavoro (peraltro, non delegabili), è proprio “la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento” (art. 17, co. 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008).
E allora, vediamo qui di seguito in che modo si esprime la legge al riguardo, andando a creare di fatto un legame assai stretto tra il mondo del diritto del lavoro “classico” e quello dell’igiene e sicurezza in azienda.
Per quanto riguarda il contratto a tempo determinato, è previsto, tra le altre ipotesi di esclusione, che:
- L’apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non è ammessa […] da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi […] (art. 3, co. 1, lett. d) del D.Lgs. n. 368/2001).
GIURISPRUDENZA: Infatti la Suprema Corte di Cassazione civile, sez. lav., 2 aprile 2012, n. 5241, ha affrontato la delicata questione degli effetti conseguenti alla violazione del divieto contenuto nell’art. 3, co. 1, lett. d), D.Lgs. n. 368/2001 che, com’è noto, non consente l’apposizione del termine alla durata del contratto di lavoro subordinato “da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni (ora art. 17, dl D.Lgs.81/08 e s.m.i.)”.
In materia di rapporto di lavoro a tempo determinato, l’art. 3 D.Lgs. n. 368 del 2001, che sancisce il divieto di stipulare contratti di lavoro subordinato a termine per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, costituisce norma imperativa, la cui “ratio” è diretta alla più intensa protezione dei lavoratori rispetto ai quali la flessibilità d’impiego riduce la familiarità con l’ambiente e gli strumenti di lavoro. Ne consegue che, ove il datore di lavoro non provi di aver provveduto alla valutazione dei rischi prima della stipulazione, la clausola di apposizione del termine è nulla e il contratto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi degli art. 1339 e 1419 co. 2 c.c.
In tema di contratto a tempo determinato, l’omesso esame, da parte del giudice di appello, del motivo di gravame incentrato sulla carenza di un valido documento di prevenzione dei rischi, tempestivamente dedotta, integra vizio di omessa pronuncia su un fatto decisivo, posto che l’art. 3 del d.lgs. n. 368 del 2001 prevede che l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato non è ammessa da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994 e successive modificazioni, incombendo, quindi, sul datore di lavoro l’onere di provare di avere assolto specificamente all’adempimento, secondo quanto richiesto dalla normativa. (Cassazione civile, sez. VI, 24/10/2016, n. 21418).
Somministrazione di lavoro e contratto di lavoro intermittente
La dottrina in merito se da un lato ha assunto un orientamento pressoché univoco circa la ratio di tale norma, che deve essere ricercata nella necessità obiettiva di salvaguardare beni giuridici fondamentali, quali salute e sicurezza sul lavoro, dall’altro non si può dire altrettanto per quanto riguarda le conseguenze derivanti dal mancato rispetto del predetto divieto.
Infatti, le posizioni assunte sono state alquanto diversificate, con correnti di pensiero orientate verso la tesi della nullità del termine e la “conversione” del contratto a tempo indeterminato nelle ipotesi di violazione dei divieti contenuti nell’art. 3, e altre verso la tesi che ritiene che tale conversione potrebbe comportare la violazione dell’eventuale diritto di prelazione.
Natura del divieto ed esigenze di tutela del cd. lavoratore vulnerabile rispetto a queste due posizioni dottrinali, qui richiamate per sommi capi, la S.C. ha optato per la prima. Infatti, nell’articolata sentenza i giudici di legittimità hanno opportunamente sottolineato, in primo luogo, la natura e la funzione del divieto in questione rilevando che la valutazione dei rischi assurge a presupposto di legittimità del contratto a termine e trova, appunto, la sua ratio legis “nella più intensa protezione dei rapporti di lavoro sorti mediante l’utilizzo di contratti atipici, flessibili e a termine”.
CASO PRATICO
Ci si interroga in merito alla prassi, nell’ambito del contratto di somministrazione di lavoro, consistente nell’acquisizione, da parte del somministratore in sede di stipulazione del contratto con l’utilizzatore, di una dichiarazione sottoscritta dal legale rappresentante dell’impresa utilizzatrice che attesti l’esecuzione della valutazione dei rischi ex art. 17, D.Lgs. n. 81/08 e s.m.i. presso l’azienda utilizzatrice medesima.
In particolare ci si chiede se, nel caso in cui successivamente venga accertato che l’utilizzatore, diversamente da quanto precedentemente dichiarato al somministratore, non abbia in realtà effettuato la valutazione dei rischi, la prassi summenzionata possa legittimamente esonerare da responsabilità l’azienda di somministrazione.
L’art. 20, 5 co. 5, lett. c), D.Lgs. n. 276/2003 recita: “il contratto di somministrazione di lavoro è vietato (…) da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’ art. 4 del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, e successive modifiche”.
Dunque, ciò che per la legge è vietato è lo stesso contratto, nell’ipotesi che uno dei due contraenti, vale a dire l’utilizzatore, non abbia effettuato la valutazione dei rischi.
In altre parole, sebbene il comportamento principale richiesto dalla norma sia configurabile in capo ad uno solo dei contraenti, cioè all’utilizzatore, il comportamento illecitamente omissivo di quel contraente comporta anche il divieto per l’altro contraente, cioè per il somministratore, di stipulare il contratto di somministrazione di lavoro. Pertanto, il somministratore che sottoscrive il contratto deve usare la normale diligenza richiesta ad un operatore professionale specificamente autorizzato dalla pubblica autorità all’esercizio della propria attività ai sensi dell’art. 4, D.Lgs. n. 276/2003.
Al riguardo, si può ritenere che il comportamento diligente richiesto dalla norma ai fini dell’esenzione da colpa possa essere quello della verifica dell’effettivo adempimento da parte dell’altro contraente della valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. n. 81/08 e s.m.i., quanto meno per presa visione del relativo documento, che ne attesta l’effettiva esecuzione, ovvero, della autocertificazione da parte del legale rappresentante dell’utilizzatore, limitatamente ai casi in cui la stessa legge prevede che la valutazione dei rischi da parte dell’utilizzatore avvenga con tale modalità di autocertificazione (art. 17, D.Lgs. n. 81/08 e s.m.i.).
A sostegno di tale considerazione, il precetto consistente nel divieto di cui all’art. 20, co. 5, lett. c), D.Lgs. n. 276/2003, deve essere letto in combinato disposto con la sanzione prevista dall’art. 18, co. 3, della stessa norma, che punisce entrambi i contraenti e non solo l’utilizzatore, con la sanzione amministrativa da 250 euro a 1.250 euro. Infatti, dalla lettura dell’intero art. 18
appare evidente che ogni qualvolta il legislatore ha inteso limitare la sanzione ad uno solo dei contraenti lo ha esplicitamente previsto. Lo stesso co. 3 dell’art. 18 contiene infatti sanzioni che colpiscono entrambi i contraenti, come quella in esame e sanzioni che colpiscono esplicitamente un solo contraente. In altre parole, laddove nell’ambito del contratto il comportamento censurabile riguarda uno solo dei contraenti, il legislatore lo ha esplicitamente affermato, laddove negli altri casi la sanzione colpisce entrambi i contraenti, sia il somministratore sia l’utilizzatore. In questo senso, l’esistenza di una sanzione astrattamente applicabile anche al somministratore comporta logicamente l’esigenza di definire il comportamento legittimo che esenti da colpa il somministratore che intenda contrarre secondo la legge, senza rischiare di incorrere in una sanzione per il comportamento omissivo tenuto dall’altro contraente. Questo comportamento si ritiene possa essere quello sopra indicato di verifica dell’adempimento da parte dell’utilizzatore di quanto disposto dall’art. 17, D.Lgs. n. 81/08 e s.m.i..
Sulla base di quanto argomentato, si ritiene pertanto che una semplice dichiarazione di assunzione di responsabilità da parte del legale rappresentante dell’impresa utilizzatrice, sebbene possa sempre produrre effetti civili in tema di responsabilità contrattuale tra le parti secondo i principi generali del diritto civile, sia sufficiente ad esentare da responsabilità l’azienda utilizzatrice rispetto al comportamento ad essa richiesto e sanzionato come illecito amministrativo ai sensi del citato art. 18, co. 3 D.Lgs. n. 276/2003 solo nei casi in cui la stessa legge prevede in capo all’utilizzatore l’esecuzione della valutazione dei rischi con la modalità dell’autocertificazione (v. art. 17, D.Lgs. n. 81/08 e s.m.i.), dovendosi il somministratore accertare negli altri casi dell’avvenuta predisposizione del documento di valutazione dei rischi da parte dell’utilizzatore, quanto meno per presa visione del documento stesso: non certo nei termini di una assunzione di responsabilità nel merito tecnico della valutazione dei rischi da parte de somministratore (si veda al riguardo la circolare di questo Ministero MLPS n. 7/2005), ma almeno per accertare il fatto che la valutazione stessa sia stata effettivamente eseguita.
Quindi, le parti pur nella loro autonomia negoziale incontrano un limite, posto nel caso de quo a tutela del lavoratore “a termine” più vulnerabile sul piano infortunistico rispetto ad un altro con contratto a tempo indeterminato, rappresentato dal divieto assoluto contenuto nell’art. 3 del D.Lgs. n. 368/2001, che non consente “al datore di lavoro, che la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori non abbia effettuato, di stipulare il contratto di lavoro a termine”.
Ancora, anche per quanto riguarda la somministrazione di lavoro (sempre in aggiunta alle altre ipotesi di esclusione), è stabilito che:
- Il contratto di somministrazione di lavoro è vietato […] da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi […], art. 20, co. 5, lett. c), D.Lgs. n. 276/2003.
Infine, relativamente al contratto di lavoro intermittente, lo stesso D.Lgs. n. 276/2003, all’art. 34, co. 3, lett. c) prevede allo stesso modo che:
- È vietato il ricorso al lavoro intermittente […] da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi […].
Dagli estratti che abbiamo riportato appare evidente l’incontro (anche abbastanza ravvicinato) tra la possibilità di utilizzare i contratti di lavoro flessibile ed uno degli aspetti più importanti della vita d’azienda: quello della gestione della sicurezza sul lavoro. Un incontro forse inaspettato, ma, di fatto, di estrema importanza.
5. Collaborazioni coordinate e continuative nella modalità a progetto di cui agli artt. 61 e ss. d.lgs. n. 276/2003.
Premessa
Con la circolare n. 1/2004, il Ministero del Lavoro ha fornito, con specifico riferimento ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa a progetto di cui agli artt. 61 e ss. del D.Lgs. n. 276/2003, prime indicazioni, di carattere generale, utili per un corretto ed efficace accertamento da parte degli organi di vigilanza.
Le problematiche via via emerse rendono necessario fornire ora istruzioni su singole tipologie di attività, in relazione alle quali l’applicazione del citato art. 61, ha evidenziato una maggiore esigenza di chiarimenti.
Il Ministero del Lavoro, congiuntamente con l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), intende pertanto fornire adeguate istruzioni con specifico riferimento ai call center, valutando nel prosieguo l’opportunità di fornire con ulteriori provvedimenti indicazioni relativamente ad altre tipologie per le quali l’applicazione dell’art. 61, del D.Lgs. n. 276/2003 ha parimenti presentato profili di problematicità.
Occorre innanzitutto evidenziare che con la circolare n. 1/2004 si forniscono indicazioni di carattere operativo rivolte al solo personale ispettivo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale e degli Istituti previdenziali, al fine di uniformare il più possibile il criterio di valutazione da adottare nella lettura del fenomeno in esame.
In proposito, le Direzioni regionali e provinciali del lavoro devono avviare, ai sensi dell’art. 8, del D.Lgs. n. 124/2004, un’adeguata attività di carattere informativo, volta ad istruire gli operatori del settore sulla corretta utilizzazione della tipologia contrattuale delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto di cui agli artt. 61 e ss. del D.Lgs. n. 276/2003.
La predetta fase di opportuna informazione, i cui tempi e modalità sono stabiliti dalla Commissione centrale di coordinamento di cui all’art. 3, del D.Lgs. n. 124/2004, è volta ad assicurare omogeneità di comportamento tra gli operatori del settore ed è, pertanto, necessariamente preliminare all’avvio da parte degli ispettori di una vigilanza mirata a verificare la genuinità delle collaborazioni a progetto poste in essere.
Criteri di individuazione e specificazione del progetto o programma di lavoro
Il mercato del lavoro continua ad essere caratterizzato, anche successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276/2003 ed alla introduzione del lavoro a progetto, da un consistente utilizzo di contratti di collaborazione autonoma.
In tale prospettiva si deve anzitutto precisare che in considerazione delle novità introdotte dal D.Lgs. n. 276/2003 i presupposti per la stipulazione di un contratto di avoro a progetto devono in generale essere individuati con riferimento: a) ai criteri di individuazione e specificazione del progetto o programma di lavoro; b) ai requisiti essenziali che devono connotare l’autonomia del collaboratore nella gestione dei tempi di lavoro; c) alle modalità di coordinamento consentite tra il committente ed il lavoratore.
Pertanto, ai sensi dell’art. 61, del D.Lgs. n. 276/2003, le collaborazioni coordinate e continuative devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e che, pur potendo essere connessi all’attività principale od accessoria dell’impresa – come specificato dalla circolare dell’8 gennaio 2004 -, non possono totalmente coincidere con la stessa o ad essa sovrapporsi.
Il progetto, il programma o fase di esso così determinati diventano parte del contratto di lavoro e devono essere specificati per iscritto ed individuati nel loro contenuto caratterizzante.
La finalità di tale disposizione è quella di delimitare l’utilizzo del lavoro coordinato e continuativo a quelle sole prestazioni che siano genuinamente autonome perché effettivamente riconducibili alla realizzazione di un programma o progetto o fasi di esso gestite dal lavoratore in funzione del risultato.
Risultato che le parti definiscono in tutti i suoi elementi qualificanti al momento della stipulazione del contratto e che il committente, a differenza del datore di lavoro, non può successivamente variare in modo unilaterale.
NOTA: In considerazione di ciò, un progetto, un programma di lavoro od una fase di esso possono essere individuati anche nell’ambito delle attività operative telefoniche offerte dai call center purché in ogni caso idonei a configurare un risultato, determinato nei suoi contenuti qualificanti, che l’operatore telefonico assume l’obbligo di eseguire entro un termine prestabilito e con possibilità di autodeterminare il ritmo di lavoro.
È quindi necessario che l’ispettore riscontri l’esistenza in concreto degli elementi connotanti una genuina collaborazione a progetto così come vengono descritti nella circolare n. 1/2004.
Il progetto o programma di lavoro deve in primo luogo essere individuato con riferimento ad una specifica e singola “attività” la cui durata costituisce il necessario termine esterno di riferimento per la durata stessa del contratto di lavoro a progetto.
Ai fini della corretta e compiuta determinazione del risultato richiesto al collaboratore è dunque necessario che il progetto, programma di lavoro o fase di esso sia qualificato tramite la specificazione:
- a) del singolo committente finale cui è riconducibile l’ttività (per es. ai call center che offrono servizi in outsourcing la campagna di riferimento sarà dunque quella commissionata da terzi all’impresa stessa);
- b) della durata dell’attività, rispetto alla quale il contratto di lavoro a progetto non può mai avere una durata superiore;
- c) del singolo tipo di attività richiesta al collaboratore nell’ambito di tale intervento (promozione, vendita, sondaggi, ecc.);
- d) della concreta tipologia di prodotti o servizi oggetto dell’attività richiesta al collaboratore;
- e) della tipologia di clientela da contattare (individuata con riferimento a requisiti oggettivi e/o soggettivi).
NOTA: In considerazione di tali requisiti essenziali e qualificanti è senz’altro configurabile un genuino progetto, programma di lavoro o fase di esso, con riferimento alle campagne out bound nell’ambito delle quali il compito assegnato al collaboratore è quello di rendersi attivo nel contattare, per un arco di tempo predeterminato, l’utenza di un prodotto o servizio riconducibile ad un singolo committente.
Ciò in considerazione della intrinseca delimitazione temporale di tale tipologia di attività e della possibilità di definire compiutamente il risultato richiesto al collaboratore anche con riguardo ai requisiti soggettivi ed oggettivi dell’utenza contattata ed al tipo di prestazione concretamente dovuta per ogni contatto telefonico effettuato. Il lavoratore out bound, infatti, può prefigurare il contenuto della sua prestazione sulla base del risultato oggettivamente individuato dalle parti con il contratto.
Inoltre, l’ispettore al fine di apprezzare il carattere di autonomia della prestazione deve verificare l’esistenza di postazioni di lavoro attrezzate con appositi dispositivi che consentano al collaboratore di autodeterminare il ritmo di lavoro.
NOTA: Nelle attività in bound l’operatore non gestisce, come nel caso dell’out bound, la propria attività, né può in alcun modo pianificarla giacché la stessa consiste prevalentemente nel rispondere alle chiamate dell’utenza, limitandosi a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie psicofisiche per un dato periodo di tempo.
Ne consegue che il personale ispettivo, qualora verifichi che l’attività lavorativa come descritta è disciplinata da un contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto, procederà, dovendo ricondurre tale attività alla subordinazione, adottando i conseguenti provvedimenti di carattere sanzionatorio e contributivo.
Nell’ambito del progetto o programma di lavoro così definito al collaboratore non può essere richiesta un’attività diversa da quella specificata nel contratto.
L’ispettore, pertanto, dovrà verificare che, tra i criteri assunti per la determinazione del compenso, vi sia il riferimento al risultato enucleato nel progetto, programma di lavoro o fase di esso.
Requisiti essenziali per l’autonomia della prestazione
L’art. 61, del D.Lgs. n. 276/2003 dispone che il progetto o programma di lavoro deve essere gestito autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato ed indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa. Ciò, come noto, al fine di garantire al collaboratore una sostanziale ed effettiva autonomia nell’esecuzione della prestazione.
Ne deriva che il collaboratore a progetto cui è assegnato l’incarico di compiere le operazioni richieste sopra descritte può essere considerato autonomo alla condizione essenziale che il collaboratore stesso possa unilateralmente e discrezionalmente determinare, senza necessità di preventiva autorizzazione o successiva giustificazione, la quantità di prestazione da eseguire e la collocazione temporale della stessa.
Ciò implica che il collaboratore non può essere soggetto ad alcun vincolo di orario, anche se all’interno di fasce orarie prestabilite. Di conseguenza, deve poter decidere, nel rispetto delle forme concordate di coordinamento, anche temporale, della prestazione:
- a) se eseguire la prestazione ed in quali giorni;
- b) a che ora iniziare ed a che ora terminare la prestazione giornaliera;
- c) se e per quanto tempo sospendere la prestazione giornaliera.
Da un punto di vista organizzativo ne consegue che l’assenza non deve mai essere giustificata e la presenza non può mai essere imposta.
NOTA: Anche sotto questo profilo, dunque, i requisiti di legittimità del contratto di lavoro a progetto ben sono configurabili con riferimento ad attività telefoniche out bound.
Forme consentite di coordinamento
Sempre ai sensi dell’art. 61, del D.Lgs. n. 276/2003 il fondamentale requisito dell’autonomia può essere contemperato con le esigenze di coordinamento della prestazione con l’organizzazione produttiva dell’azienda.
A tal fine, nell’ambito della specifica operatività, possono rientrare tra le forme di coordinamento:
- a) la previsione concordata di fasce orarie nelle quali il collaboratore deve poter agire con l’autonomia sopra specificata. Le fasce orarie individuate per iscritto nel contratto non possono essere unilateralmente modificate dall’azienda né questa può assegnare il collaboratore ad una determinata fascia oraria senza il suo preventivo consenso;
- b) la previsione concordata di un numero predeterminato di giornate di informazione finalizzate all’aggiornamento del collaboratore. La collocazione di tali giornate di informazione deve essere concordata nel corso di svolgimento della prestazione e non unilateralmente imposta dall’azienda;
- c) la previsione concordata della presenza di un assistente di sala la cui attività può consistere nel fornire assistenza tecnica al collaboratore;
- d) la previsione concordata di un determinato sistema operativo utile per l’esecuzione della prestazione.
È in ogni caso escluso sia l’esercizio del potere disciplinare che l’esercizio del potere di variare unilateralmente le condizioni contrattuali originariamente convenute.
GIURISPRUDENZA: In base alla regola generale di cui all’art. 295 c.p.c., nella formulazione introdotta dall’art. 33 della l. n. 353 del 1990, il giudizio di regresso instaurato dall’INAIL nei confronti del datore di lavoro, per il rimborso delle prestazioni economiche erogate al lavoratore infortunato, ex art. 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965, non è soggetto a sospensione necessaria in attesa dell’esito del processo penale pendente per gli stessi fatti; ove, poi, l’INAIL, eserciti la facoltà di costituirsi parte civile, ex art. 2 della l. n. 123 del 2007, poi sostituito dall’art. 61, co. 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, nel processo penale pendente contro il datore di lavoro per i medesimi fatti, la sospensione del giudizio civile è esclusa, ex art. 75, co. 2, c.p.p., in caso di proposizione dell’azione nella sede civile prima della sentenza penale di primo grado. (Cassazione civile, sez. lav., 09/05/2017, n. 11312).
6. Reinserimento e l’integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro.
Premessa
Con l’adozione del ”Regolamento per il reinserimento e l’integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro”, di cui alla determinazione presidenziale 11 luglio 2016, n. 258, e con l’emanazione della relativa Circolare applicativa Inail 30 dicembre 2016, n. 51, è stato posto in essere un primo significativo passo nell’iter di attuazione del disposto dell’art. 1, co. 166, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, che ha attribuito all’Inail competenze in materia di reinserimento e di integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro, da realizzare con progetti personalizzati mirati alla conservazione del posto di lavoro o alla ricerca di nuova occupazione, con interventi formativi di riqualificazione professionale, con progetti per il superamento e per l’abbattimento delle barriere architettoniche nei luoghi di lavoro e con interventi di adeguamento e di adattamento delle postazioni di lavoro.
Al riguardo, si ritiene utile evidenziare che l’attuazione delle disposizioni di cui al predetto art. 1, co. 166, da parte dell’Istituto è stata improntata a criteri di gradualità tenuto conto, da un lato, dell’esigenza di porre in essere prioritariamente misure che consentissero di accompagnare con tempestività gli infortunati e i tecnopatici nella fase del reinserimento lavorativo, dall’altro, dei tempi necessari ad attivare ogni utile raccordo con i soggetti che, a diverso titolo, hanno competenza in materia di politiche attive e di servizi per il lavoro, a seguito delle modifiche recentemente apportate al quadro normativo di riferimento.
Per tale ragione, con il Regolamento e la relativa Circolare attuativa, l’Istituto ha disciplinato, in fase di prima applicazione, i soli interventi mirati alla conservazione del posto di lavoro, necessari a dare sostegno alla continuità lavorativa degli infortunati e dei tecnopatici, successivamente al verificarsi di un evento lesivo o dell’aggravamento delle limitazioni funzionali preesistenti conseguenti a un infortunio sul lavoro o a una tecnopatia.
Diversamente, ai fini dell’attuazione degli interventi finalizzati alla ricerca di nuova occupazione, anch’essi previsti dal richiamato co. 166, l’Istituto non può operare interagendo soltanto con il datore di lavoro tenuto ad adottare gli accomodamenti ragionevoli così come previsto per la definizione degli interventi finalizzati alla conservazione del posto di lavoro, considerato che la competenza primaria in materia di politiche attive del lavoro, anche con riguardo ai lavoratori disabili, è affidata ad altri soggetti pubblici.
Infatti, con l’emanazione dei decreti legislativi 14 settembre 2015, n. 150 e n. 151, attuativi del Jobs Act, l’articolazione delle competenze in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive è stata rimodulata, così come sono stati consolidati i principi alla base della definizione delle linee guida in materia di collocamento mirato delle persone con disabilità.
Ciò conferma che le competenze conferite all’Istituto dal predetto co. 166, con riferimento alla ricerca di nuova occupazione in favore delle persone con disabilità da lavoro sono, comunque, condizionate da attività di diretta competenza di altri soggetti istituzionali.
Al riguardo, posto che gli interventi finalizzati alla ricerca di nuova occupazione potranno essere oggetto di compiuta disciplina solo a seguito della piena attuazione delle disposizioni in materia di politiche attive e servizi per il lavoro, è stato avviato, a livello centrale, un percorso finalizzato a pervenire a ogni utile possibile raccordo con il Ministero del lavoro e con l’Anpal – in relazione alle competenze rispettivamente ascritte in materia – e funzionale ad assicurare la piena efficacia dei processi di reinserimento lavorativo.
In attesa della definizione dei suddetti raccordi, tenuto conto dei compiti attribuiti all’Istituto dal richiamato co. 166, l’Istituto ritiene, comunque, necessario attivare, in via sperimentale, misure a sostegno dell’inserimento lavorativo in nuova occupazione, laddove sussista l’incontro tra domanda da parte della persona con disabilità da lavoro e offerta di lavoro da parte di un datore di lavoro, anche a seguito dell’attività dei servizi a tal fine preposti.
Ambito di applicazione e finalità
Premesso quanto sopra, le disposizioni previste dal Regolamento per il reinserimento e l’integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro, di cui alla determinazione presidenziale 11 luglio 2016, n. 258, e le relative modalità operative si applicano anche in favore di persone con disabilità da lavoro causata da un evento infortunistico o tecnopatico tutelato dall’Inail alle quali un datore di lavoro offra una nuova occupazione per lo svolgimento di un’attività lavorativa, non necessariamente soggetta a obbligo assicurativo Inail. Tale misura è finalizzata a garantire alle persone con disabilità da lavoro tutelate dall’Inail anche in caso di nuova occupazione lo stesso sostegno per l’inserimento e l’integrazione lavorativa previsto in caso di conservazione del posto di lavoro.
Si precisa che, analogamente a quanto previsto per la conservazione del posto di lavoro, non rientrano tra i destinatari degli interventi per l’inserimento in nuova occupazione quei soggetti tutelati dall’Inail che non sono direttamente qualificabili come lavoratori, quali per esempio gli studenti e le cosiddette casalinghe. Sono, inoltre, esclusi i dipendenti delle amministrazioni statali, anche a ordinamento autonomo, assicurati attraverso la speciale gestione per conto dello Stato.
Pertanto, qualsiasi datore di lavoro, che intenda assumere una persona con disabilità da lavoro tutelata dall’Inail, potrà fruire del sostegno dell’Istituto per la realizzazione degli accomodamenti ragionevoli, funzionali allo svolgimento della mansione oggetto del contratto di lavoro che lo stesso deve porre in essere a garanzia del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità e della piena uguaglianza con gli altri lavoratori, ai sensi dell’art. 3 co. 3-bis del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 e successive modificazioni.
Le disposizioni della presente Circolare si applicano, pertanto, laddove l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, in relazione a una nuova occupazione, si realizzi nell’ambito di un contratto di lavoro subordinato o parasubordinato. È escluso, pertanto, il lavoro di tipo autonomo previsto, invece, in caso di conservazione del posto di lavoro.
Relativamente alle tipologie di contratto, mentre non si ravvisano problemi di applicabilità per i contratti di lavoro a tempo indeterminato, per quanto invece concerne quelli a tempo determinato o flessibili, è necessario effettuare, caso per caso, una valutazione costi/benefici che tenga conto delle diverse tipologie di interventi da realizzare in funzione dell’inserimento in nuova occupazione, in relazione alla durata del rapporto di lavoro.
Il contratto di lavoro può prevedere anche il differimento della prestazione di lavoro a un termine successivo a quello di stipula, purché la data sia coerente con i tempi previsti per la realizzazione degli interventi individuati nel Progetto di reinserimento lavorativo personalizzato.
Premesso quanto sopra, ferme restando le disposizioni contenute nel richiamato Regolamento e nella relativa Circolare attuativa in merito ai requisiti soggettivi del datore di lavoro/titolare dell’impresa/legale rappresentante della persona giuridica, alle tipologie di interventi previsti per il reinserimento lavorativo e ai limiti di spesa rimborsabili, con riferimento alla predisposizione del progetto personalizzato mirato all’inserimento in una nuova occupazione, nonché all’approvazione del progetto e del Piano esecutivo, è necessario evidenziare alcune specificità rispetto alle modalità indicate nella suddetta Circolare attuativa n. 51/2016, connesse alle diverse finalità cui, in tal caso, il progetto è preordinato.
Predisposizione del progetto
Il datore di lavoro che intende assumere una persona con disabilità da lavoro, oltre a manifestare, alla Sede Inail competente per domicilio del lavoratore, la sua disponibilità a collaborare attivamente con l’Istituto e con il lavoratore all’elaborazione del progetto di inserimento lavorativo, deve provvedere a comunicare, tramite il modello allegato (all. n. 1): la mansione specifica alla quale sarà adibito il lavoratore, la tipologia di contratto che intende attivare, la sua durata, la sede di lavoro e la relativa unità produttiva. Ciò al fine di garantire l’appropriatezza degli interventi da individuare nell’ambito del progetto stesso.
Inoltre, presupposto indispensabile per l’elaborazione del progetto è che il disabile sia stato sottoposto a visita medica preventiva in fase preassuntiva da parte del medico competente, ai sensi dell’art. 41 del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e successive modificazioni, o dei competenti uffici delle Aziende sanitarie locali (AA.SS.LL.), ai sensi dell’art. 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e che in esito a detta visita sia stato formulato, in relazione alla mansione specifica alla quale deve essere adibito il lavoratore, un giudizio di idoneità parziale permanente con prescrizioni o limitazioni, che deve essere acquisito dall’équipe, per il tramite del lavoratore.
Sulla base delle suddette informazioni, l’équipe multidisciplinare di I livello competente per domicilio del lavoratore con le stesse modalità operative indicate nella richiamata Circolare applicativa n. 51/2016 procede, tenuto conto delle considerazioni di natura sanitaria, personale e socio-ambientale, a individuare, nell’ambito del Progetto di reinserimento lavorativo personalizzato, gli interventi necessari e appropriati in relazione al caso concreto ai fini dello svolgimento della mansione per la quale si intende stipulare il contratto di lavoro.
Le informazioni riguardanti il rapporto di lavoro (mansione, tipologia di contratto, durata, luogo e unità produttiva) devono essere indicate in modo puntuale in sede di definizione del progetto, sottoscritte dal datore di lavoro e dal lavoratore e allegate alla sezione 5 della “Scheda progetto” costituendone parte integrante.
Conclusa la predisposizione del progetto personalizzato, si procede come descritto nella succitata Circolare applicativa n. 51/2016 alle successive fasi di:
- elaborazione, da parte del datore di lavoro, del Piano esecutivo nel rispetto dei limiti di spesa previsti dal Regolamento per ciascuna tipologia di intervento;
- verifica di coerenza del Piano esecutivo con il Progetto di reinserimento lavorativo, da parte dell’équipe multidisciplinare di I livello;
- verifica amministrativa della rispondenza del Progetto di reinserimento personalizzato e del Piano esecutivo alle disposizioni regolamentari, a cura della Direzione territoriale competente.
Progetto di reinserimento
La Direzione regionale o Direzione provinciale di Trento o di Bolzano o Sede regionale di Aosta, territorialmente competente con riferimento all’équipe multidisciplinare di I livello che ha elaborato il Progetto di reinserimento lavorativo personalizzato, effettua tutte le valutazioni e le verifiche previste dalla succitata Circolare applicativa n. 51/2016, paragrafo 6.4. punto b).
È necessario, tuttavia, evidenziare che nella fattispecie oggetto della presente Circolare il provvedimento che approva il Progetto di reinserimento lavorativo personalizzato e il relativo Piano esecutivo e ne determina la relativa spesa, deve prevedere espressamente che l’approvazione stessa è condizionata alla sottoscrizione del contratto di lavoro conforme a quanto indicato in sede di elaborazione del progetto.
Successivamente, deve essere tempestivamente inviata al datore di lavoro una comunicazione con la quale, nell’informare della intervenuta approvazione condizionata del progetto e del Piano esecutivo, ai fini dell’adozione del provvedimento autorizzativo per la realizzazione degli interventi, si chiede l’invio della copia autenticata del contratto di lavoro stipulato tra le parti secondo quanto indicato in sede di elaborazione del progetto in termini di tipologia e durata del contratto, di unità produttiva e di luogo di lavoro, nonché di mansione specifica. Nella stessa comunicazione devono essere riportati, altresì, il costo totale degli interventi approvati e la durata complessiva di realizzazione dell’intero progetto.
Qualora sia comunicata da parte del datore di lavoro la mancata stipula del contratto, la Direzione regionale o Direzione provinciale di Trento o di Bolzano o Sede regionale di Aosta, nel prendere atto che la condizione non si è verificata, deve provvedere a ritirare il provvedimento di approvazione e la relativa spesa, informando, per il tramite della Direzione territoriale, l’équipe di I livello che ha elaborato il progetto di inserimento lavorativo personalizzato.
Nel caso in cui pervenga il contratto stipulato tra le parti, la Direzione regionale o provinciale o la Sede regionale deve procedere alla verifica della sua conformità rispetto a quanto indicato in sede di elaborazione del progetto. Inoltre, in caso di differimento della data di inizio della prestazione di lavoro rispetto a quella di stipula del contratto, deve essere verificato che la suddetta data sia coerente con i tempi previsti per la realizzazione dell’intero progetto.
A seguito dell’esito positivo delle suindicate verifiche, la Direzione regionale o Direzione provinciale di Trento o di Bolzano o Sede regionale di Aosta adotta il provvedimento che autorizza il datore di lavoro a procedere alla fase di realizzazione degli interventi.
Il provvedimento di autorizzazione deve espressamente riportare, a integrazione di quanto previsto nella richiamata Circolare applicativa n. 51/2016, che il contratto di lavoro sottoscritto tra le parti è stato stipulato in conformità alla tipologia e durata del contratto, all’unità produttiva, al luogo di lavoro e alla mansione specifica indicati in sede di elaborazione del progetto e, in caso di differimento della data di inizio della prestazione di lavoro rispetto a quella di stipula del contratto, che la data di effettiva adibizione alla mansione è coerente con il termine previsto per la realizzazione dell’intero progetto.
Richiesta anticipazione rimborso spese
Il datore di lavoro che è stato autorizzato alla realizzazione degli interventi, a seguito della stipula del contratto di lavoro, può richiedere l’anticipazione di cui all’art. 10 del Regolamento, nei limiti e alle condizioni ivi previste e indicate nella succitata Circolare applicativa n. 51/2016.
Le Strutture territoriali potranno rimborsare al datore di lavoro i costi sostenuti per gli accomodamenti ragionevoli con riferimento agli interventi di cui all’art. 1, co. 166, che siano necessari per lo svolgimento della mansione specifica per cui lo stesso datore di lavoro ha assunto la persona con disabilità da lavoro, nei limiti previsti dal vigente Regolamento e secondo le modalità riportate dalla relativa Circolare applicativa n. 51/2016. Si precisa che ai fini del rimborso è necessario che tali costi siano stati sostenuti successivamente al provvedimento di autorizzazione a realizzare gli interventi adottato a seguito della stipula del contratto di lavoro, anche nel caso in cui lo stesso preveda il differimento della prestazione di lavoro.
Tuttavia, qualora il contratto preveda il differimento della prestazione di lavoro a un termine successivo a quello della stipula, il datore di lavoro potrà richiedere all’Inail il rimborso delle spese effettivamente sostenute soltanto al completamento di tutti gli interventi previsti nel provvedimento di autorizzazione.
In relazione a quanto sopra precisato, consegue, pertanto, che nessun rimborso di spese relative agli interventi potrà essere erogato al datore di lavoro, pur a fronte dell’approvazione del progetto e del relativo Piano esecutivo da parte dell’Inail, in assenza sia dell’assunzione del disabile da lavoro, comprovata dal contratto di lavoro sottoscritto dalle parti, stipulato conformemente a quanto sopra precisato, sia dell’effettiva adibizione del lavoratore alla suddetta mansione specifica.
Conclusioni
Per quanto non espressamente previsto dalla presente Circolare si fa rinvio alle disposizioni contenute nella Circolare n. 51/2016.
Riguardo agli strumenti a supporto delle attività delle Unità territoriali per il reinserimento lavorativo degli infortunati e tecnopatici, sono disponibili nel minisito della Direzione centrale prestazioni socio-sanitarie una specifica scheda per l’elaborazione del progetto di inserimento in nuova occupazione, nonché il prospetto aggiornato per il monitoraggio dei progetti di reinserimento lavorativo che dovrà essere inviato, dalla Direzione regionale o provinciale o dalla Sede regionale, alla suddetta Direzione centrale.
Si rappresenta, infine, che la Direzione centrale prestazioni socio-sanitarie, unitamente con le altre Strutture centrali interessate, garantisce attività di supporto e consulenza nei confronti delle Strutture territoriali già nella fase di prima analisi dei casi, oltre che in quelle successive, in funzione dell’attivazione dei progetti personalizzati di inserimento in nuova occupazione.